Il caso Moro: quello che Yalta 1944 ha diviso nessun uomo riunisca.
Geopolitica e Nuovo Ordine Mondiale: dal bipolarismo USA- CCCP, generato dalla Cold War, al tripolarismo post Cold War USA- Russia- PRC il passaggio non può essere indolore, come del resto non lo fu ai tempi della Rivoluzione Francese allorché dal duopolio clerico-nobiliare della società pre industriale, si passó al sistema tripolare voluto dalla grossa borghesia assurta al rango di competitor politico grazie alla rivoluzione tecnico-commerciale figlia dell’Illuminismo.
Quello di cui qui, data la premessa, mi prefiggo di parlare non è tanto di ciò che è stato detto e/o, a vario titolo omesso, travisato, nascosto, fuorviato quanto al caso Moro, bensì di qualcosa che, andando ben oltre lo specifico, permette di toccare con mano cosa è la reale politica internazionale e quali superiori interessi si celano dietro ogni bi- o multipolarismo di facciata, nonché del cinismo reale che dietro di essi si cela.
L’ho qui fatto partendo da un caso politico–giudiziario specifico ed emblematico sposando la stessa logica che ha motivato l’esimio Dr. Ivan Savov, Chairman @ European Risk Policy Institute, a pubblicare sul suo PerilScope il pezzo intitolato “Strategic Deep Dive The Machinary of Perpetual War – The Global War Economy and the Russia–Ukraine Conflict”, la cui lettura ci permette di ulteriormente apprezzare come all’atto pratico non vi siano vite che valgano più degli interessi economico-strategici di una esigua minoranza di individui e gruppi di potere che, sia pure a vario titolo, le popolazioni manipolano e gestiscono per impiegarle come massa di manovra per perseguire i propri specifici obiettivi strategici.
Detto per inciso non è un caso che nel post con cui su Linkedln il Dr.Savov lo ha proposto si possa testualmente e significativamente leggere: “All’ombra dei carri armati e dei trattati, ronza un motore da mille miliardi di euro: l’economia di guerra globale. Quella che era iniziata come un’invasione territoriale è maturata in un flusso di entrate sistemico, sostenuto da giganti della difesa, reti segrete e calcoli geopolitici”
Ed ancora: questo pezzo “svela l’intera architettura del business della guerra: dalle risorgenti fabbriche di armi dell’Europa orientale alle condutture segrete che incanalano i componenti verso la Russia sottoposta a sanzioni, dai corridoi del grano agli accordi sulle terre rare. Rivela perché alcuni attori preferiscono silenziosamente la guerra alla pace, e come gli incentivi economici ora influenzino la traiettoria del conflitto ucraino tanto quanto quelli militari. Porre fine alla guerra, si scopre, significa smantellare il suo modello di business”, che poi è, mutatis mutandi, lo stesso in nome del quale sono stati creati i BRICS, tanto per indenderci.
In questo senso, alla luce dei fatti correnti, l’inquietante ombra legata alle vicende politiche dell’Italia della prima metà degli anni ’70, –ovverosia quell’ombra ascritta alla biografia di Henry Kissinger e riguardante i suoi rapporti con Aldo Moro, lo statista democristiano noto per aver sostenuto una rivoluzionaria politica inclusiva delle forze politiche socialiste e comuniste, perseguita di pari passo con l’allora segretario del Partito Comunista Italiano, Enrico Berlinguer, ovverosia con il co–fautore del ‘compromesso storico’ tra le forze popolari antifasciste propugnato dopo il golpe in Cile–, finisce per acquistare un peso ed un significato ancora maggiore di quanto sin qui evidenziatosi dato che lascia emergere la fredda logica separativa su cui in definitiva si è basata gran parte della storia dell’umanità, in generale, e dell’Occidente, in particolare.
Quella logica separativa che è stata il fondamento di tutta la Cold War fino al crollo del Muro di Berlino, ovverosia del presupposto stesso su cui si è basato il potere incontrastato esercitato da Mosca e da Washington nelle rispettive aree di competenza individuate a Yalta nel 1944, nonché di quello perseguito da Beijing allorché la globalizzazione le ha fatto intravedere la possibilità di un confronto scontro tra il Nord ed il Sud del mondo promosso dai BRICS sfruttando la militarizzazione dei mercati e dei flussi finanziari, nonché delle fonti di approvvigionamento delle commodities ed in particolare materiali strategici.
Tenendo presente quanto sin qui proposto come spunto di riflessione e di lettura dei fatti, abbiamo che quanto segue acquista un significato che all’epoca del sequestro e dell’omicidio dell’On. Aldo Moro non venne preso assolutamente in considerazione, e ciò a maggior ragione allorché, stando alla narrativa corrente, si diffuse la notizia che il 25 Settembre del 1974 lo stesso Aldo Moro, a margine di un incontro a Washington, dove si trovata in qualità di Ministro degli Esteri, con l’allora Segretario di Stato americano Henry Kissinger, aveva ricevuto proprio da quest’ultimo un avvertimento perentorio: “Onorevole lei deve smettere di perseguire il suo piano politico per portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. Qui o lei smette di fare queste cose o lei la pagherà cara. Veda lei come la vuole intendere”.
Un avvertimento che assunse un tono torbido dopo il sequestro e l’assassinio di Moro nel maggio 1978 da parte dei terroristi delle Brigate Rosse, e che in seguito è stato oggetto di lunghe e talvolta spericolate speculazioni e complottismi.
A quanto si sa a diffondere quella notizia sarebbe stato Corrado Guerzoni, il portavoce di Aldo Moro, rendendo in tal senso una testimonianza giurata nel corso del processo a carico dei terroristi delle BR.
Nello specifico si vuole che Guerzoni abbia in quella sede spiegato che Kissinger aveva colto l’occasione per sottolineare a Moro che l’allargamento della maggioranza di governo italiana a tutti i partiti non era per gli USA una strada praticabile: una dichiarazione confermata in sede processuale anche dalla moglie di Aldo Moro, Eleonora Chiavarelli, allorché la stessa non solo testimoniò che l’assassinio del marito fece seguito a serie minacce di morte, ma ribadì la stessa frase attribuita a Kissinger nella testimonianza giurata di Guerzoni: “O tu cessi la tua linea politica oppure pagherai a caro prezzo per questo”, fornendo una versione dei fatti sempre smentita da Kissinger. Una smentita da prendere con le dovute cautele, me per certo non non confutabile, quanto alla sua veridicità, basandosi solo sulle affermazioni di Guerzoni e della Sig. Moro a loro volta rese sul presunto racconto fatto loro dallo stesso Moro.
Tuttavia a partire da queste dichiarazioni, come noto, prese le mosse una campagna stampa dedita alla stigmatizzazione sistematica della CIA, degli Stati Uniti e di Henry Kissinger secondo un copione che ha ripreso vigore allorché recentemente è giunta la notizia della comparsa di alcuni documenti di fonte statunitense desecretati comprovanti quanto si qui esposto.
Peccato che dalla lettura del documento fondamentale assunto mediaticamente a prova incontrovertibile del tutto non emerga affatto quanto sin qui divulgato ed ancora ritenuto per lo più veritiero, e ciò per la semplice ragione che delle summenzionate affermazioni di Kissinger non vi è traccia alcuna: in verità troppo poco per definire la tesi implicitamente proposta come destituita di ogni fondamento, fermo restando che eppure la morte dell’On. Moro può essere assunta, in assenza di riscontri oggettivi, come la prova inconfutabile della pista statunitense.
Una pista che comunque sia ha beneficiato del supporto di non poco conto giunto grazie ad alcune dichiarazioni eccellenti come quelle rilasciate da Steve Pieczenik, assistente del Sottosegretario di Stato, nonché capo dell’Ufficio per la gestione dei problemi del terrorismo internazionale del Dipartimento di Stato Usa istituito da Henry Kissinger, che nel corso di in un’intervista concessa nel 2006 e pubblicata in Francia dal giornalista Emmanuel Amara, nonché da quest’ultimo riprese nel suo libro intitolato “Nous avons tué Aldo Moro” (“Abbiamo ucciso Aldo Moro”), sembrerebbe avere testualmente detto: “La decisione di far uccidere Moro non venne presa alla leggera. Ne discutemmo a lungo, perché a nessuno piace sacrificare delle vite. Ma Cossiga mantenne ferma la rotta e così arrivammo a una soluzione molto difficile, soprattutto per lui. Con la sua morte impedimmo a Berlinguer di arrivare al potere e di evitare così la destabilizzazione dell’Italia e dell’Europa”.
Una dichiarazione che per la verità colpisce più che altro, oltre che per essere stata rilasciata in un momento in cui l’intera vicenda era coperta dal segreto di Stato –oltretutto per certo non da uno sprovveduto qualsiasi–, perché sembra concertata più che altro per surrettiziamente ascrivere al, a quel tempo, Senatore a vita Cossiga la ferma determinazione di eliminare fisicamente Moro, nonostante lo stesso Cossiga nel 1978 fosse Ministro degli Interni.
Comunque la si voglia mettere la presenza di Steve Pieczenik è significativa per essere stata messa a disposizione di Cossiga (o imposta?), e quindi dell’Esecutivo italiano, da Jimmy Carter lo stesso giorno del rapimento: una presenza che ci fa apprezzare appieno l’importanza strategica per gli USA di quanto stava accadendo in Italia poiché disposta in questo senso in deroga a quanto stabilito un paio di mesi prima dallo stesso Carter conformemente all’indirizzo già di Gerald Ford che prevedeva che i servizi di informazione statunitensi non potessero collaborare con governi stranieri in casi di terrorismo, salvo che non fossero in gioco gli interessi e la sicurezza nazionale degli USA, cosa per altro esclusa dallo stesso Cossiga quantunque Moro fosse a conoscenza di segreti di Stato come la struttura di Stay-Behind (in Italia Gladio).
Dal punto di vista storico colpisce non poco che a venti anni dai fatti, nel 1998, prese forma una grossa polemica politica a partire dal tenore di alcune affermazioni di Pieczenik, secondo il quale Moro avrebbe potuto essere salvato e restituito alla vita politica, ma sarebbe stato vittima di un “complotto ad altissimo livello” avente lo scopo di evitare che lo statista fosse liberato: una polemica che si è riproposta pure nel 2014, questa volta a 36 anni di distanza da quel tragico evento, grazie alle parole dello stesso Pieczenik che questa volta, stando a quanto riportato dai giornali, avrebbe dichiarato che “L’ordine degli USA non era di far rilasciare Moro ma di stabilizzare l’Italia”.
Una frase che sposta il centro decisionale da Roma a Washington, ma non solo, e lascia nuovamente aperta la strada ad un’altra lettura dei fatti occorsi in quel lontano 1978, lettura che prende le mosse, tra le altre, da una dichiarazione di Alberto Franceschini, membro delle BR, relativa al fatto che senza la copertura della CIA, del KGB e del Mossad (quest’ultimo chiamato in causa per ragioni ben diverse legate a quel discutibile “Lodo Moro” di cui in Italia poco si ama parlare), loro non avrebbero potuto né rapire né tantomeno tenere nascosto Moro a Roma per 55 giorni.
Una lettura per la verità già emersa in qualche modo, ma prontamente rigettata come complottista dalla Magistratura italiana, se vogliamo giustamente interessata a definire le responsabilità personali ed oggettive dei singoli personaggi a vario titolo coinvolti nella vicenda come si conviene che sia in un procedimento penale che deve basarsi su fatti oggettivi e non su letture geopolitiche e geostrategiche, nonché resa poco plausibile (volutamente?) propio da quel Pieczenik che nel corso degli anni ha fornito resoconti contraddittori sul proprio ruolo nell’affaire Moro a diversi giornalisti, ma non si è mai presentato a nessuna inchiesta parlamentare o giudiziaria italiana, per somma rilasciando dichiarazioni (volutamente?) bizzarre su Osama Bin Laden e su altre questioni non legate al caso Moro che lo hanno fatto ritenere un testimone inaffidabile secondo, viene da dire, le necessità del momento
Una lettura che ha ripreso vigore, a mio avviso, grazie a quanto dichiarato dal Gen. Roberto Jucci nel corso di una intervista rilasciata nel Marzo 2024 ad antimafiaduemila.com e pubblicata con il significativo titolo ”’Aldo Moro andava distrutto’, parola di Roberto Jucci: il generale delle missioni segrete”, e pressoché passata inosservata, nella quale ad un certo punto si legge testualmente: “Ma a non volere la liberazione di Moro non erano solo gli alleati di oltreoceano ma anche la vicina Unione Sovietica”
Ed infatti, ha dichiarato il Gen. Jucci “Anche i servizi sovietici in quel momento seguivano le stesse strategie. Ricordo l’arresto di Morucci e Faranda a casa di Giuliana Conforto, che dopo pochi mesi fu messa in libertà nonostante i reati a lei attribuiti avrebbero forse richiesto pene più elevate. Chi era Giuliana Conforto? La figlia di un agente del Kgb di lunga data, Giorgio Conforto, il quale ha sempre lavorato dietro le quinte per uno dei burattinai dei nostri servizi, quel Federico Umberto D’Amato di cui ho già parlato“.
In linea con quest’ultima dichiarazione troviamo un articolo del 2003, a firma di Philip Willan, che sul Guardian ha scritto: “Sia Mosca che Washington si opposero alla politica di Moro in quanto pericolosamente destabilizzante per l’ordine europeo postbellico che le grandi potenze sancirono alla conferenza di Yalta nel 1945. Ancora oggi si sospetta che la CIA o il KGB, forse entrambi, possano aver avuto un ruolo nel suo violento allontanamento dalla scena politica. Come minimo, non hanno fatto nulla per assicurarne il rilascio”.
Un’affermazione che solo in apparenza appare fantasiosa per tutta una serie di ragioni che vanno ben oltre le semplici opinioni anche quelle più qualificate come quella del Gen. Jucci, e perfino travalicano, per ciò che attiene al clima di quegli anni, i documenti declassificati comprovanti il fatto che potenze straniere, come la Gran Bretagna, fossero legittimamente preoccupate che il PCI facesse parte del governo italiano giungendo al punto di discutere persino della possibilità di un colpo di Stato per rimuovere il PCI qualora lo stesso avesse vinto le elezioni politiche italiane del 1976.
Una minaccia quella britannica da non sottovalutare visto che dal 1945 ad oggi gli UK si sono resi responsabili della pianificazione e/o dell’esecuzione di oltre 40 tentativi di destituzione di governi stranieri in 27 Paesi, coinvolgendo le agenzie di intelligence, interventi militari occulti e/o palesi e assassinii.
Una eventualità, quella del colpo di Stato, che probabilmente Moro e Berlinguer volevano tacitamente evitare potesse concretizzarsi nel caso di un futuro ‘sorpasso’ elettorale cercando un accordo che molto probabilmente non tenne conto del punto di vista moscovita, e ciò a maggior ragione alla luce di quanto accadde nel 1975 allorché alle elezioni locali il PCI ottenne il 33% dei voti, subito dopo la Democrazia Cristiana al governo: un risultato ottenuto attirando i consensi attaccando la corruzione, impegnandosi per la democrazia, la libertà e l’impresa privata, nonché prendendo le distanze da Mosca e promettendo un accordo con la NATO e la CEE.
Per certo l’antiamericanismo diffuso ha fatto passare in secondo piano questo aspetto decisamente trascurato: un qualcosa che non poco, ritengo, si possa ascrivere al rapporto non sempre sereno tra Cossiga e gli Stati Uniti. Un rapporto contrassegnato da un vero e proprio lungo, anche se per lo più surrettizio, contenzioso il cui più rilevante episodio fu quella “crisi di Sigonella” che nel 1985 prese forma e sostanza a seguito del sequestro e dirottamento della nave Achille Lauro che vide il coinvolgimento del cittadino statunitense Leon Klinghoffer, ucciso dai terroristi.
Nello specifico la querelle italo-statunitense fu una conseguenza della diversa idea di come gestire i terroristi coinvolti e la loro cattura, con l’Italia che si opponeva al rilascio mentre gli Stati Uniti, guidati dal presidente Reagan, erano in disaccordo con la posizione del governo Craxi. La crisi, inizialmente squisitamente diplomatica, portò ad un certo punto all’instaurazione di un clima di tensione tale da sfiorare il rischio che il tutto sfociasse in un vero e proprio scontro armato tra militari italiani e statunitensi nella base di Sigonella, costituendosi come un episodio dal forte impatto tanto sulla politica italiana, quanto sulle relazioni internazionali tra Roma e Washington.
Un impatto di portata tale da far ben intuire come venne accolta dall’immaginario collettivo italiano quanto dichiarato ad Italy Day il 16 Marzo 2001 da Steve Pieczenik sempre a proposito del caso Moro:
“Il mio compito per il governo di Washington era di stabilizzare l’Italia in modo che la DC non cedesse. La paura degli Americani era che un cedimento della DC avrebbe portato consenso al PCI, già vicino a ottenere la maggioranza. In situazioni normali, nonostante le tante crisi di governo, l’Italia era sempre stata saldamente in mano alla DC. Ma adesso, con Moro che dava segni di cedimento, la situazione era a rischio. Venne pertanto presa la decisione di non trattare. Politicamente non c’era altra scelta. Questo però significa che Moro sarebbe stato giustiziato. Il fatto è che lui non era indispensabile ai fini della stabilità dell’Italia”.
Parole che in qualche modo confermano quelle contenute nella relazione della “Commissione Parlamentare d’inchiesta sul terrorismo e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi”, istituita con legge 23 dicembre 1992, n. 499, che richiamava la legge 17 maggio 1988, n. 172 e successive modificazioni, laddove, con riferimento al caso Moro, a pagina 34 della sezione denominata “Ultimi sviluppi dell’inchiesta sul caso Moro”, datata 12 Settembre 2000, si legge testualmente:
“Lo stato dell’inchiesta sembra quindi confermare che, anche nella vicenda Moro, le BR furono ciò che dicevano di essere: che cioè rapirono Moro seguendo le proprie scelte ideologiche e le proprie dichiarate finalità. Lo processarono e lo condannarono secondo un loro codice; e che sembra rientrare nella logica brigatista la stessa determinazione di eseguire la sentenza, anche se assunta in esito ad un contrasto interno, di cui sono note le dinamiche e i protagonisti”, salvo aggiungere che “Ciò ovviamente non esclude, come meglio in seguito si chiarirà, che dello stato dell’inchiesta facciano parte acquisizioni che (sul processo a Moro e sulla sua condanna) pongono interrogativi e dubbi relativi al rapporto tra Moro e le sue carte, il ruolo di intelligence straniera, il ´valore attribuibile a dichiarazioni come quelle rese alla Commissione dal prof. Cappelletti nella sua audizione del 23 febbraio 2000 e su cui in seguito si tornerà”.
“Peraltro la conclusione negativa (allo stato dovuta), in ordine ad un’eterodirezione delle BR sia nella loro complessiva esperienza, sia in particolare nella vicenda Moro, non è sufficiente ad escludere che quest’ultima sia stata attraversata da ´intelligenze esterne. Sul punto la Commissione ritiene del tutto ragionevole il giudizio espresso nell’audizione del 20 aprile 1999 dall’onorevole Claudio Signorile, il quale ritenne di poter definire colpevolmente ingenuo o addirittura infantile pensare che non ci sia stato un processo di attraversamento, di congiunzione, di contatti, di contaminazione in un Paese di frontiera come l’Italia segnato da caratteristiche strategiche essenziali nel quale (da un gruppo terrorista) viene rapito il suo uomo politico più importante”.
Molto interessante, a tale proposito, troviamo a seguire, nello stesso documento, la seguente precisazione: “In particolare per ciò che riguarda possibili collegamenti internazionali rinvenibili nella complessiva storia delle BR, ulteriori approfonditi accertamenti confermano i risultati dell’analisi cui la Commissione d’inchiesta dell’VIII legislatura dedicò un ampio capitolo della sua relazione conclusiva (capitolo IX da pag. 124 a pag. 151), e che la indusse a due conclusioni, che possono ancora oggi essere ribadite. La prima fu nel senso che il terrorismo delle BR è stato indubbiamente un fenomeno autoctono nato ed organizzatosi in Italia e costantemente diretto da menti italiane, anche se si avvalse dell’aiuto di simpatizzanti italiani e stranieri in altri Paesi europei, grazie ai quali ai suoi militanti fu possibile trovare ospitalità e protezione nei momenti di maggiore pericolo”.
Nella relazione conclusiva di cui sopra emergono particolari interessanti che all’epoca dell’VIII legislatura non potevano essere presi in esame in tutta la loro significatività mancando dei riscontri oggettivi. Intendo riferirmi a quanto riportato a pagina 127 della summenzionata relazione dove si può leggere dell’opinione espressa da un certo “Joseph Frolik, ex agente segreto cecoslovacco, secondo il quale i servizi segreti del suo Paese si erano da tempo specializzati in faccende italiane avendo organizzato attentati in Alto Adige”.
Una opinione collimante con quella un certo “Walter Laquer, direttore del Centro studi strategici internazionali di Washington” che aveva dichiarato che “le BR beneficiavano nell’impresa Moro di aiuti stranieri in denaro ed armi, in particolare da parte della Cecoslovacchia e che era facile intuire chi ci fosse dietro i Cecoslovacchi”. In un certo senso è evidente come un tale spunto di riflessione abbia di fatto “chiamato in causa il KGB, cui si attribuiva il ruolo di fomentatore del terrorismo internazionale”.
Quello, però, che maggiormente colpisce a posteriori è che quantunque al KGB si riferissero diverse fonti americane dell’epoca, “era evidente una divergenza di posizioni tra la CIA, che negava di avere riscontri attendibili, ed il Dipartimento di Stato che assicurava di averli”: una circostanza che a breve assumerà un significato ed un perso di ben altra rilevanza. Una rilevanza che certo non poteva certo emergere dal fatto che “al KGB, e comunque a un “’ideologo’ del Partito comunista sovietico, un esperto della lingua russa, il diplomatico Renzo Rota, già primo consigliere dell’ambasciata a Mosca dal 1965 al 1972, faceva risalire la parte ideologica del primo messaggio delle Brigate Rosse nonché tutto il secondo, relativi al sequestro Moro”.
Come è ovvio che fosse i Sovietici accusarono la CIA di essere l’elemento di sostegno del terrorismo e lo fecero citando, a conferma delle proprie accuse, l’attività svolta in Italia da Ronald Stark, un singolare personaggio, sedicente agente dei Servizi statunitensi al centro dell’operazione BlueMoon di militarizzazione delle droghe, anche se l’aspetto più interessante che emerge dal documento qui preso in esame è quello relativo a quanto il 27 Aprile 1978 il procuratore generale del Cairo rese noto, nel corso di una conferenza stampa, circa il presunto apparentamento di una corrente palestinese dissidente di Al-Fatah con le BR finalizzato alla esecuzione di operazioni terroristiche in Svizzera.
Contatti, questi, che sarebbero stati confermati anche da un Palestinese, già studente in medicina all’Università di Roma, smentiti dalle autorità federali elvetiche che negarono l’esistenza a Zurigo di un’organizzazione terroristica filoaraba legata alle BR, ma circa la cui esistenza Farouk Kaddumi, il capo del Dipartimento politico del PLO, si era dichiarato disposto ad indagare dando notizia al Ministro Cossiga il 29 Aprile che “la Resistenza palestinese avrebbe ricercato notizie tramite qualsiasi militante dell’organizzazione in grado di avere contatti con le BR o con altri gruppi a conoscenza dell’operazione Moro”.
Una rassicurazione, quella di Farouk Kaddumi, sicuramente degna di nota vista la posizione assunta nei confronti di un personaggio molto probabilmente chiave nel gioco delle parti che ha fatto da sfondo all’omicidio di Aldo Moro e di cui parleremo diffusamente a breve: mi riferisco a Ilich Ramírez Sánchez, meglio conosciuto come Comandante Carlos, Carlos “lo Sciacallo” o semplicemente Carlos, un terrorista e mercenario venezuelano, marxista-leninista filo-islamico, nominato -a suo dire- “cittadino palestinese onorario” da Yasser Arafat in persona, noto soprattutto -ma non solo- per l’assalto condotto al quartier generale dell’OPEC a Vienna, il 21 Dicembre 1975, per il quale si guadagnò il titolo di super ricercato a livello internazionale per diversi anni, nonché la riprovazione di Kaddumi che ne stigmatizzó l’azione in quanto l’obiettivo dei terroristi era stato quello di dividere l’OPEC e privare il Terzo Mondo dell’arma più efficace contro l’Occidente, nonché controproducente per gli obiettivi palestinesi.
Interessante notare la composizione eterogenea del gruppo di fuoco attivo a Vienna, un gruppo tra i cui membri, oltre a Carlos, ritroviamo due, a detta delle autorità algerine, palestinesi e uno libanese, due europei, uno dei quali era una donna non identificata sulla ventina, forse irlandese o inglese, e l’altro Hans-Joachim Klein, 28 anni, che lavorava in uno studio legale di Francoforte e aveva legami con gruppi radicali.
Carlos non è stato un terrorista come gli altri e la sua analisi sull’insostenibilità del modello capitalistico occidentale, che, quando scrisse quanto segue era ancora lungi dall’esplodere nell’attuale crisi economica, si è rivelata una analisi tanto più lucida e condivisibile, quanto più si considera il suo intransigente respingimento del paradigma del presunto “scontro di civiltà” di cui in tempi decisamente a noi più prossimi ha scritto Samuel P. Huntington nel suo “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale”: “Di fatto, non vi sono due concezioni del mondo opposte: la democrazia occidentale, come modello assoluto e insuperabile, e il mondo islamico, oscurantista, reazionario e arretrato. Non c’è nemmeno uno scontro fra civiltà, o fra culture, bensì un ostacolo tecnico legato allo sviluppo dei mercati, al libero gioco delle forze capitaliste, che sono solo una delle forme, uno dei mille volti dell’imperialismo. Un rullo compressore che appiattisce tutto quel che trova, livella le culture, le tradizioni e la fede degli uomini, per piegarli alle leggi del consumo e al culto del commercio”.
Come comunista Carlos fu un comunista per certi versi anomalo soprattutto perché incline a definire quelli “ortodossi” come “una casta di burocrati” interessati solo “alla conquista, o all’esercizio personale del potere”: una posizione che lo portò a considerare che per combattere il capitalismo fosse necessario “passare dalla teoria alla pratica”: da qui il sostegno alla presunta causa rivoluzionaria dei cosiddetti popoli oppressi che lo porto a sostenere gli arabo-palestinesi nella loro lotta al sionismo.
In questo senso acquista un significato notevole una sua affermazione che testualmente recita: “Non è la lotta dell’Islam contro l’Occidente, la cristianità, o l’ebraismo in sé, bensì la lotta contro tutti coloro, musulmani compresi, che hanno abbandonato la parola di Dio o che hanno tradito i valori sacri fondanti l’uomo e la sua umanità”, con ciò respingendo qualsiasi ipotesi circa il movente religioso del terrorismo internazionale (è infatti un nemico dichiarato dell’imperialismo sionista, pur riconoscendo il diritto di Israele all’esistenza), sicché il suo monito è contro “l’odio, che può mettere le culture, le razze e le religioni una contro l’altra”.
Tanto qui si riporta non apologeticamente, ma per poter comprendere certe dinamiche che per proprietà transitiva alla fine produssero quel complesso di eventi che portò alla morte di Moro; una morte funzionale a tutto altro rispetto a quanto illusoriamente perseguito da chi lo rapì e poi lo uccise, nonché da chi questi motivò all’azione per, a conti fatti, favorire proprio coloro che si dichiarava di voler combattere perpetuandone il modello di sviluppo che di fatto surrettiziamente gestirono a vario titolo la cosa nel consueto stile proxy che ha caratterizzato la Cold War e quanto a questa è seguito dando vita ad un gioco delle parti in cui i più evidenti protagonisti sono al più delle ignare pedine in un gioco di cui a mala pena conoscono le reali regole e strategie.
Tanto si può agevolmente evincere leggendo, tra le altre cose, due testi di sicuro interesse: “L’íslam révolutíonnaire” di Ilič Ramírez Sánchez e “Ilič Ramírez Sánchez Lo sciacallo – la vera storia di Carlos” a cura di Marco M. Marsili.
Tutto quanto sin qui riportato giustifica il perpetuarsi delle accuse mosse a più organismi stranieri, accuse che continuarono ed essere sollevate anche dopo l’assassinio dell’onorevole Moro: accuse che assunsero un tono ed un peso decisamente diverso allorché, alla fine di Maggio del 1978, i servizi israeliani fecero recapitare la copia di un volantino trovato in Libano redatto in lingua araba in data 15 maggio 1978 da sedicenti Brigate Rosse–sezione Libano, nel quale si accennava alla lotta armata in vari Paesi, tra questi l’Italia, dove era stato sequestrato il “falso leader Aldo Moro”.
Come ovvio che sia, per quanto i lavori della Commissione delle XIII legislatura abbiano sostanzialmente confermato le risultanze di quella dell’VIII legislatura, a pagina 33 della stessa ad un certo punto si può leggere che, comunque sia, “affermare che le BR siano state un fenomeno autoctono che ha vissuto di vita propria, non significa escludere che la loro storia divenga più pienamente comprensibile se inquadrata, e non solo in termini strettamente ideologici, in un più ¡ vasto quadro internazionale che ha riguardato quasi tutta l’Europa e l’intero bacino del Mediterraneo e nel quale, come già rilevato, le BR trovarono appoggio collaborativo e, soprattutto nella fase finale della loro esperienza, comunanza di disegni strategici, quando esse sembrarono percepire i limiti che derivavano dal chiudersi del loro disegno nell’ambito nazionale e, con il sequestro Dozier, prima operazione anti NATO condotta dall’organizzazione terroristica, cercarono di rilanciare la loro azione in un contesto più ampio, mostrando una maggiore disponibilità a stabilire rapporti anche operativi con l’estero”.
Tanto si era ritenuto di affermare alla luce di tutto ciò che era emerso circa i collegamenti delle BR di cui nel dossier Mitrokhin trasmesso alle autorità competenti appena nell’Ottobre 1999, meno di un anno prima della presentazione delle risultanze dei lavori della Commissione della XIII legislatura.
A posteriori, ovverosia allorché vennero conclusi i lavori della “Commissione Parlamentare d’Inchiesta Concernente il ‘Dossier Mitrokhin’ e l’Attività d’Intelligence Italiana” e reso pubblico, in data 15 Marzo 2006, il documento conclusivo sull’attività svolta e sui risultati dell’inchiesta, quanto sin qui progressivamente evidenziatosi apparve in tutta la sua evidenza circa il fatto che in Italia all’epoca del delitto Moro erano attivi molti gruppi terroristici dell’ultra sinistra controllati, come si può leggere nel testé menzionato documento da pag 193 in poi, di fatto gestiti ed organizzati, perfino a livello europeo, dal summenzionato Carlos, a suo volta legato intimamente ai gruppi terroristici palestinesi surrettiziamente coordinati da Mosca
Perché tutto ciò è importante? Perchè lascia intravedere un’altra possibile dinamica quanto all’omicidio dell’On. Aldo Moro: quella di una surrettizia tacita alleanza tra le Agenzie di intelligence russa e statunitense finalizzata a mettere fuori gioco il progetto politico da quest’ultimo varato in collaborazione con il comunista Berlinguer.
Un progetto collaborativo che, qualora fosse giunto in porto, avrebbe decretato la fine del presupposto giustificativo per antonomasia della divisione del mondo in due blocchi politico-militari, rigorosamente contrapposti, gestiti da USA e CCCP, nonché della reiterata presenza militare sul suolo europeo e della leadership di Mosca, così come quella di Washington, nei Paesi facenti parte, rispettivamente, tanto del Patto di Varsavia quanto della NATO, ma non solo di quelli, e per tale ragione da rimuovere con ogni mezzo dalla scena politica per tramite della fisica eliminazione sia dell’On. Moro, che dell’On. Berlinguer.
Ora, poiché la morte di quest’ultimo in un Paese NATO sarebbe stata un evento dalle conseguenze difficilmente gestibili, ma non così quella di A. Moro, a maggior ragione qualora questa fosse avvenuta per mano di fanatici sognatori –i militanti delle cosiddette Brigate Rosse– che in quel frangente credevano fermamente, e sicuramente in buona fede, di lottare per stimolare la rivoluzione socialista in un Paese affiliato alla NATO.
Da questo, è pertanto lecito ritenere, e non da altro, avrebbe preso le mosse quel complesso di eventi che condusse al rapimento ed alla morte di A. Moro: un qualcosa che qualora trovasse riscontro oggettivo in qualche documento desecretato sarebbe per certo foriero di oltremodo gravide conseguenze a dir poco difficili da gestire ancora oggi tanto per la White House, quanto per il Cremlino.
Peccato che, o per fortuna, dipende ovviamente dai punti di vista, la riprova o la, a mio avviso poco probabile, confutazione di questa ipotesi potrebbe emergere solo dagli archivi di quel KGB e/o di quella CIA che mai saranno resi disponibili ai comuni mortali, ovvero a causa di qualche falla del sistema gravida di conseguenze, sicché il tutto al momento resta una ipotesi di lavoro stimolata dall’osservazione che i sistemi bipolari sono l’eterno frutto di quel pragmatico “divide et impera” da cui discende la ben nota autoreferenzialitá figlia della strumentale contrapposizione di chi punta a trarre la propria legittimazione dalla mera delegittimazione dell’altro, il tutto in in contesto caratterizzato dalla più sfrenata realpolitik.
È tuttavia interessante notare, in questo contesto, come l’interessante rilievo fatto da Norman Birnbaum, noto specialista dell’Amherst College in questioni italiane, che nel Settembre 1978 (come risulta in una comunicazione classificata (e tale rimasta fino al 2014) dell’Ambasciatore statunitense in Italia, Gardner, del 15 Settembre 1978) aveva invitato acutamente a non escludere assiomaticamente la possibilità che la CIA fosse stata in qualche modo coinvolta nella morte di Aldo Moro, così come non si sarebbe dovuto escludere un ruolo del KGB, il tutto in un contesto dal quale emergeva la preoccupazione dell’Ambasciata statunitense per quello che Garder definí come ispirato dal desiderio di mantenere vive “le speculazioni su una complicità politica o addirittura nazionale”.
Nello stesso comunicato risulta evidente la preoccupazione di Gardner per la vivacità del dibattito che, a quanto pare, anche a suo dire avrebbe potuto portare a poco piacevoli conseguenze derivanti da quelli che lo stesso ha definito come possibili “nuovi sviluppi o rivelazioni imprevedibili che potrebbero disturbare il delicato equilibrio del quadro politico italiano”, delicato, ovviamente, per quelli che erano gli interessi strategici statunitensi.
Certo è che la morte di Moro ha cassato la possibilità che nel quadro geopolitico globale prendesse forma una terza via dai potenziali effetti destabilizzanti le logiche duali del confronto politico dell’epoca: quello alla base del mantenimento in essere di quell’Ordine Mondiale nato dagli accordi di Yalta del 1944, accordi relativi ad una spartizione del globo che traeva la propria ragion d’essere dalla negazione aprioristica di una qualsivoglia collaborazione tra liberali e marxisti che se la morte di Moro ha scongiurato nell’immediato, l’apparentamento degli USA al leader comunista Giorgio Napolitano ha consolidato mettendo fuori gioco l’altro promotore di quella terza via: l’On. Enrico Berlinguer.
A tale proposito si può leggere l’interessante, interessante in quanto basato su una vasta mole di cablogrammi resi pubblici da Wikileaks, libro scritto da Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara ed intitolato “I panni sporchi della sinistra” da cui ha preso forma un articolo dal titolo alquanto significato “Napolitano e l’alleanza del PCI con la CIA durante il rapimento Moro” che aiuta non poco a comprendere il perché Henry Kissinger di Napolitano abbia detto (non senza un certo autocompiacimento), che era sempre stato “il suo comunista preferito”.
Fonti consultate:
https://www.dcnews.it
https://www.ss3.amazon.com
https://www.antimafiaduemila.com
https://www.telegraph.co.uk
https://www.theguardian.com.uk
https://www.repubblica.it
https://www.declassifieduk.org
https://www.senato.it
https://memoria.cultura.org
https://time.com/archive/6880711/terrorist-kidnapping-in-vienna-murder-in-athens/
https://iris.unive.it
https://wikileaks.org
Alessandro Forlani, “La zona franca: Così è fallita la trattativa segreta che doveva salvare Aldo Moro”, Lit edizioni, 2014
Manlio Castronuovo, “Vuoto a perdere – Le Brigate Rosse, il rapimento, il processo e l’uccisione di Aldo Moro”, Narcissus.me, 2013
Felice Saulino, Michela Mantovan, Moro, il caso torna in Parlamento, in Corriere della Sera, 18.03.1998