Le sentenze si impugnano, non si commentano. Così dicono in tanti, preferibilmente se digiuni di conoscenze giuridiche, e in particolare dei principi basilari del diritto oltre che, spesso, del mero buon senso. Lasciamo perdere l’ipocrisia di quelli che questo “principio” lo sbandierano solo quando sono gli altri a commentare le sentenze che a loro fanno invece comodo, e fermiamoci per un attimo a riflettere, non dico sotto il profilo tecnico, che poi sarebbe l’unica analisi che avrebbe logica, ma per l’appunto secondo buon senso. In ogni sistema giuridico è regola, da sempre, che le sentenze sulle tematiche più dibattute vengano commentate, e nessuno ha mai avuto nulla da ridire su questo almeno fino a che non siano altri e diversi interessi, diciamo solo genericamente “politici”, a spingere le levate di scudi.
E sì, perché allora la musica cambia, e anche principi granitici nel tempo vengono messi in discussione…se fa comodo a qualcuno. L’unica domanda sensata che ci si dovrebbe porre rispetto alla possibilità di commentare le sentenze è invece: ma davvero qualcuno pensa che esista un qualsiasi essere umano la cui decisione non possa esser criticata e messa in discussione?
Seppur superfluo, precisiamo da subito, solo per spuntar le critiche di chi, non avendo argomenti, attacca la solita filippica sulla correttezza dell’espressione e via dicendo e che porterebbe via solo tempo, che la critica deve essere ovviamente rispettosa, corretta, educata, anche se quest’ultima almeno, da qualche tempo, sembra assai poco considerata e ancor meno praticata proprio da quegli autonominatisi difensori di principi che, soprattutto se non sanno nulla dell’argomento di cui vanno a discettare, hanno però sempre qualcosa da dire.
E teniamo però al contempo un occhio anche a quell’altro principio, troppe volte invocato a sproposito, e cioè quello della libertà di espressione del pensiero per vedere, non tanto la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione sulle c.d. “droghe leggere”, ma i problemi che deriveranno da quella.
Precisato che anche questa, come qualsiasi altra, per esser commentata dovrebbe esser stata almeno letta e magari, se non è troppo, anche compresa, vediamo allora cosa raccontano i giornali.
Secondo quel che si legge, le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza del 19 dicembre scorso sulla tematica delle droghe c.d. leggere (che è espressione del tutto priva di senso, per una molteplice serie di ragioni, di cui però parleremo un’altra volta, tanto è ampia da non poter esser qui affrontata, neppure incidentalmente), avrebbe imposto dei “paletti” alla sorta di legittimazione alla coltivazione che avrebbe sancito.
Vediamo quali sarebbero questi “paletti”.
- che i quantitativi di stupefacente siano “minimi”
- che siano coltivati personalmente
- che l’uso sia esclusivo per che la coltiva
Brava Cassazione, il mondo lotta ovunque contro la droga, eccettuato dove fanno finta di farlo perché porta utilità, ci sono eserciti che si fronteggiano (pensate solo a quel che è accaduto recentemente in Colombia, dove l’esercito – regolare – ha dovuto rilasciare un capo del narcotraffico che aveva catturato perché ne aveva di fronte un altro, ancorchè non convenzionale, di narcotrafficanti che li soverchiava), e voi ci dite che … se è poca, se la coltivi da solo, e la usi solo tu (non so se è necessaria l’iscrizione ai coltivatori diretti, ma questo lo vedremo in seguito), allora non è illegale coltivare stupefacenti?! E però, sempre la Suprema Corte, dice anche che nel caso di un semplice incidente stradale, la prima cosa da accertare è se il conducente fosse sotto l’effetto di sostanze stupefacenti e subito, in caso di accertamento positivo, gli si toglie la patente.
L’aspetto più inquietante è però un altro: le Sezioni Unite se lo sono posto il quesito sul profilo probatorio? Non esistendo tabelle e parametri numerici ben individuati, come si fa materialmente a capire quando è minima la quantità? Il concetto di minimo è assai soggettivo. Mi torna in mente al riguardo un caso di alcuni anni fa quando alcuni tizi, trovati in possesso di diversi chilogrammi di stupefacente, furono assolti perché avevano sostenuto che era per uso personale.
E poi, minimo rispetto a cosa? Al peso del coltivatore/utilizzatore? Un quantitativo minimo per uno che pesa 100/120 kg. (e ce ne sono!) non è lo stesso di uno che ne pesa 50. E poi, coltivare personalmente, che significa? Se uno coltiva la piantina di marjuana, nel senso che la innaffia, la pota, in due parole la cura, stando a quel che direbbe questa sentenza, sarebbe legale. Ma se per caso all’annaffiatura provvede la colf (in regola per carità di Dio, altrimenti si aprono altri problemi), perché il signorino è a scuola o al lavoro, o a bighellonare altrove, diventa una coltivazione illegale e quindi la colf diventa una coltivatrice e spacciatrice oppure diventa lei la coltivatrice? Ma allora se se la deve fumare lei … e non può “cederla” al signorino”.
Quanto al caso poi, che può immaginarsi frequente, del “coltivatore” che fa fare una tirata alla moglie, ai figli, al padre, agli amici ospiti a cena … che succede? Le Forze dell’Ordine che dovessero accedere in una casa dove si sta fumando, come accertano, nel concreto, non nelle esternazioni oniriche mentali di chi scrive certe cose, chi è il “coltivatore”!?
Ecco perché ho intitolato questi pensieri sparsi … “diabolica probatio”.
Come che sia, andrò a leggermela quella sentenza, così magari qualcosa di più riuscirò a capire. Ma se davvero quel che sintetizzano i giornali sono i veri “principi” e “paletti” sanciti dalle Sezioni Unite … beh, allora mi sa tanto che è meglio lasciar perdere.