Tutti osserviamo la divergenza tra economia reale e ricchezza finanziaria nel mondo occidentale: la prima stenta, la seconda incredibilmente esplode, complici vari artifizi finanziari che hanno arricchito a dismisura – e selettivamente – gli operatori della finanza, grazie a Qes, z/nirp.
L’enorme concentrazione di ricchezza da una parte e accumulo di debito statale dall’altra per tentare di sostenere l’economia reale. Dunque, anche gli Usa hanno un problema: Obama invece di fare crescita negli ultimi 8 anni ha tenuto a galla l’economia con il debito (il maggior incremento in una singola amministrazione, circa il 50% del Pil Usa, 8.4mila mld Usd). Ben inteso, Washington è sufficientemente forte (militarmente) per imporre a chiunque una rinegoziazione del proprio fardello ma a pegno di caos e conflitti oltre che della fine del sistema capitalistico americano.
È verosimile tale approccio? No, non lo è, ci sono metodi migliori. Ad esempio svalutare il dollaro, creare inflazione, non aumentare i tassi a compensazione se non marginalmente – ossia dare un messaggio chiaro al mercato: voglio svalutare – e finalmente ricomprarsi il debito a forte sconto sul mercato secondario ormai crollato specialmente nella parte lunga della curva. In fondo, per capirci, questa è a grandi linee la ricetta di Donald Trump. Al contrario di quello che vogliono farci credere i sodali di Obama, The Donald non è uno sprovveduto.
Due numeri: oggi l’inflazione mainstream Usa è circa l’ 1% ed i tassi a 10 e 30 anni sono rispettivamente circa 1.6% e 2.3% (il tasso ufficiale di sconto è ca. 0.1%). Se l’inflazione salisse al 4% o 5% a causa di una svalutazione del dollaro che lo riportasse rapidamente poco più su di dove era 5 anni fa (circa 1.40 sull’euro, magari 1.50) unitamente a moralsuasion governativa in tal senso – un aumento molto limitato del tasso di sconto, diciamo dello 0.5% – il debito Usa sul secondario crollerebbe. Ossia, tale debito magari emesso via z/nirp a tassi vicini allo zero potrebbe essere ricomprato ad un valore risibile rispetto al facciale (oggi circa un terzo di tutto il debito mondiale è a tasso sotto zero grazie al z/nirp zero/negative interest rates policy, con più di due terzi del debito emesso – via Qe- a lungo termine). Così facendo sarebbe possibile la riduzione del debito Usa del 50%+: più si alza l’inflazione e meno sale l’indicatore, ossia il tasso di sconto, più si svaluta la quotazione del proprio debito (con parallelo crollo del dollaro). Semplice no?
Ma è addirittura più facile: il debito americano è in buona parte detenuto dalla stessa Fed, quindi non sarebbe necessario ricomprarlo. Un’altra grossa fetta è invece in mano a Stati sovrani, in primis cinese ed arabo che hanno valute legate al dollaro. E tali attori sarebbero felicissimi di supportare la svalutazione Usa anche a pegno di perdite sui Treasuries, facilmente compensabili via emissione di moneta locale (ossia inflazione globale, oltre ad un aumento delle materie prime e soprattutto dell’oro).
Chi perderebbe in tutto questo? L’unica voce fuori dal coro, l’Ue tedesca – contraria anche ai Qe – che si regge sull’austerity (ma per altre ragioni, leggasi per depredare i periferici e comandare il vecchio continente) e che aborrisce l’inflazione; infatti i paesi europeriferici avrebbero tutto l’interesse a seguire gli Usa nell’abbattimento del debito per via inflattiva ma non la Germania che per propri interessi vorrebbe mantenere lo status quo austero e virtuoso (per sé). Senza dimenticare che via mini-dollaro le importazioni Usa crollerebbero, leggasi deflazione per gli esportatori di Vw e Bmw. Dunque la svalutazione del dollaro metterebbe a nudo gli interessi divergenti tra centro e periferia europea, quindi la rottura dell’Ue e dell’euro, un disastro per Berlino. E qui capiamo la retorica anti Trump sbandierata nell’Ue a guida tedesca. Ed anche la retorica di Trump contro la Germania, il vero ostacolo nell’implementazione del “piano”.