Che Alexei Navalny fosse un condannato a morte lo sapevamo tutti. Quello che non sapevamo era quando e come sarebbe stato ucciso. È accaduto in una prigione dell’Artico russo dal nome neanche tanto fantasioso, ‘Lupo Polare’, ma che solo a menzionarla congela i pensieri e le parole anche di quelli che non vi hanno mai messo piede.
La colonia penale n.3 di Kharp, un ex gulag staliniano, è l’ultimo domicilio conosciuto dell’oppositore di Putin, l’acerrimo nemico dello zar, che lo ha mandato (dopo arresti e processi discutibili) nella struttura che si trova nella regione autonoma di Yamalo-Nenetsk, a 2 mila chilometri da Mosca. Qui le temperature e gli inverni sono molto rigidi ( -11 gradi quando Navalny è morto), come rigide sono le modalità di detenzione di coloro che hanno la sfortuna di accedervi.
Giornate brevi, con poche ore di luce: poi solo gelo e buio. Ma questo è quello che meritano coloro che si permettono di opporsi al regime, che criticano il governo e la leadership di Vladimir Putin. Ed è bene che si sappia, affinché non venga in mente ad altri di sfidare il governo e pretendere democrazia e rispetto dei diritti fondamentali. Merce rara a quelle latitudini, anche se certe restrizioni alla libertà d’espressione e non solo esercitano un certo fascino anche su alcuni occidentali, non necessariamente nostalgici dell’ex Unione Sovietica, che vorrebbero tanto congelare i pensieri di tutti.
Ma tornando in Russia, per essere certi che il modello Navalny non venga replicato, subito dopo la notizia della sua morte, dalla Procura di Mosca è arrivato il monito a non partecipare alle manifestazioni in favore del dissidente. Tra un mese esatto si vota per le presidenziali e arrivarci in mezzo alle proteste non aiuterebbe la propaganda di Putin. O forse sì, se la detenzione e la morte del dissidente servissero a dimostrare che il pugno duro dello Stato riesce a soffocare ogni voce contraria.
Per la 27esima volta dall’inizio della sua detenzione, nelle celle di isolamento Navalny di giorni ne aveva già trascorsi 308 da gennaio 2021, quando finì in carcere perché riteneva di dover denunciare il regime dittatoriale che Putin ha instaurato in Russia. E lo ha fatto con tutti gli strumenti che, insieme al suo staff, ha ritenuto idonei: proteste, comizi, inchieste. E mentre i soliti complottisti filo-putiniani lo hanno da subito classificato come un uomo al soldo della Cia con il compito di destabilizzare il potere in Russia, ha più volte rischiato la pelle fino a quando, dopo una passeggiata mattutina all’aperto ( che significa camminare per 11 passi in lunghezza e 3 in larghezza) quando le temperature da quelle parti sono più rigide, avrebbe avuto un malore che lo ha condotto alla morte. Sulle cause del decesso, però, dobbiamo aspettare il verdetto dei medici. Ma anche “il Servizio penitenziario federale sta verificando e indagando” su quanto avvenuto, ha fatto sapere Dmitry Peskov, portavoce del Cremlino. Intanto, dalla tv russa Russia Today, arriva una prima indicazione sulla costruzione della versione-propaganda del regime: Navalny sarebbe morto a causa di una trombosi. Poi, forse, alla fine scopriremo che è morto di freddo. In fondo, qualcuno ha provato a raccontarci che pure Cristo è morto così.