“L’intelligence si conosce poco e male, attraverso stereotipi e luoghi comuni. È stata demonizzata per decenni soprattutto nel nostro Paese, in particolare in base alla teoria del ‘doppio Stato’ in base alla quale c’è stato un complotto costante per impedire che le forze popolari conquistassero democraticamente il governo del Paese. Oggi, invece, l’opinione pubblica sta cominciando a interpretare l’intelligence non più come luogo oscuro e ambito dell’indicibile, ma come strumento fondamentale per contrastare il terrore e ancora di più la criminalità organizzata”. Sono le parole del professor Mario Caligiuri all’indomani della presentazione del suo nuovo libro dal titolo “Aldo Moro e l’Intelligence. Il senso dello Stato e la responsabilità del potere” (Rubettino Editore ). Direttore del primo Master di Intelligence in Italia presso l’Università della Calabria, esperto di comunicazione e autore del primo esperimento di e-democracy, Caligiuri è inoltre presidente della Fondazione Italia Domani.
Aldo Moro statista, Aldo Moro uomo di intelligence, l’intreccio tra senso dello Stato e responsabilità del potere. Citerebbe degli esempi pratici nella vita politica dello statista in questo connubio?
“Sono innumerevoli. Aldo Moro è stato un protagonista assoluto nella vita della Repubblica dal 1946 al 1978. In un periodo storico in cui in Italia succede di tutto, Aldo Moro è sempre nei punti chiave per tutelare l’interesse dello Stato e salvaguardare quello delle istituzioni. Non solo fu uno dei 75 componenti che realizzò materialmente la Costituzione, negli anni cinquanta fu ministro della Giustizia e della Pubblica Istruzione, e nell’occasione istituì l’ora di Educazione Civica. Il ruolo della Pubblica Istruzione è fondamentale nella costruzione di uno Stato e Aldo Moro rivestì questo ruolo nei primi anni del dopoguerra. Dopodiché, diventò segretario della Democrazia Cristiana nella fase in cui si verifica l’apertura al Partito Socialista. Ed è sempre in questo periodo che affronta la vicenda del governo Tambroni, invitato a dimettersi perché il generale Giovanni de Lorenzo gli fornisce le prove che il presidente del Consiglio era stato parte attiva nelle vicende del giugno e luglio del 1960. Era un momento di crisi politica perché l’alleanza centrista era in crisi e il centro sinistra stentava a nascere. Erano anche gli anni in cui bisognava provvedere al finanziamento del partito e la Cia dava 60 milioni di lire alla DC per le esigenze delle organizzazione. Una cifra che era un terzo di quanto il partito comunista sovietico faceva pervenire al partito comunista italiano. Successivamente, quando diventa Presidente del Consiglio del governo di centrosinistra, deve affrontare le vicende legate al ‘Piano Solo’, ovvero il presunto tentativo di colpo di Stato promosso dal Generale De Lorenzo. Moro gestisce questa vicenda, svelata poi da un’inchiesta de L’Espresso del 1967. De Lorenzo denunciò di seguito il direttore del settimanale, Eugenio Scalfari, e l’autore dell’inchiesta, Lino Iannuzzi. In seguito entrambi vennero condannati in primo grado. Mentre è Presidente del Consiglio affronta lo scandalo dei fascicoli del Sifar, la trasformazione del Sifar in Sid, la vicenda del terrorismo Altoatesino, l’entrata ufficiale del nostro Paese nella rete Stay Behind, e poi successivamente la trattativa dei confini con la ex Yugoslavia, con il Trattato di Osimo. In tutte queste fasi, i rapporti con l’intelligence sono costanti, continui e proficui. Aldo Moro riesce ad utilizzare le informazioni dell’intelligence e sa dialogare con gli uomini che la praticano. Ricordo, tra l’altro, i rapporti con Vito Miceli direttore del Sid che, dopo l’arresto nel 1975, venne liberato grazie alla testimonianza decisiva di Aldo Moro. Inoltre, i rapporti con il generale Enrico Mino, il comandante generale dei carabinieri scomparso tragicamente in un incidente di elicottero nel 1977 in Calabria, oppure la forte relazione come con Stefano Giovannone capocentro del Sid a Beirut, garante dell’accordo con le organizzazioni palestinesi, a cui fa più volte riferimento dal carcere nella lettere a Flaminio Piccoli, capogruppo della DC alla Camera dei Deputati, e a Erminio Pennacchini, sottosegretario ai servizi segreti”.
La vita di Moro venne spezzata durante i tragici eventi della primavera del ’78. La sua definizione di Moro è quella di “un uomo politico che sapeva guardare lontano”. Quali furono concretamente i risultati di questo mirabile guardare lontano e di questo utilizzo dell’intelligence come strumento miliare nell’interesse della Repubblica?
“Prima di tutto ha garantito il benessere e la sicurezza del Paese. Ha allargato la partecipazione democratica nella gestione del potere, ha salvaguardato la sicurezza dello Stato nelle relazioni internazionali non solo con i palestinesi, ma anche nel suo ruolo di ministro degli Affari Esteri, in una particolare fase storica del nostro paese, segnata dal terrorismo politico che poi non a caso vede in Moro la vittima più illustre”.
In un’intervista di qualche anno, Bassam Sharif che negli anni ’70 si occupava della politica estera del Fplp, asserì che “Moro fu rapido nel comprendere la necessità di intrecciare i rapporti con il fronte di George Habash, in modo da rafforzare la sicurezza del paese. Egli – continua Sharif – incontrò i vertici dei servizi per mettere a punto l’accordo che fu firmato da George Habash. Questo accordo sanciva l’esclusione dell’Italia, in chiave futura, da qualsiasi operazione dei miliziani filo-palestinesi, o meglio, da qualsiasi atto terroristico all’interno di esso, ed il movimento di uomini e mezzi lungo la penisola. L’ affaire “Lodo” nella parte in cui “riguardava il futuro” intendeva questo? In fondo Yemen, Iraq, Algeria e Siria appoggiarono l’intesa.
“La finalità del Lodo Moro era quella di evitare che nel nostro paese si potessero realizzare attacchi di tipo terroristico legati alle vicende di quel periodo, all’interno del quale vanno necessariamente contestualizzati. Mi chiede se il tipo di politica di Moro degli anni Settanta possa avere, ancora oggi, un riflesso indiretto sulle circostanze attuali di un’assenza di attentati terroristici ad opera di fondamentalisti nel nostro Paese? Secondo me quella politica non c’entra nulla, perché oggi le dinamiche sono tutt’altre”.
Secondo lei, dunque, il fondamentalismo islamico non è una minaccia ma un rischio?
“Il fondamentalismo islamico è una minaccia terribile ma va contestualizzata. Le possibilità di morire per un attentato terroristico in Occidente è di tre volte inferiore ai decessi che si verificano per gli incidenti nelle stanze da bagno. Un’ipotesi dunque remota. Invece, la criminalità organizzata, per le vicende passate, presenti e future, è di gran lunga più temibile e pericolosa”.
Qual è l’impegno prioritario nel futuro dell’intelligence?
“E’ molto chiaro: la minaccia cyber e gli aspetti relativi all’economia. Quello che sta accadendo in questi giorni in Italia, relativamente alle vicende relative alla costituzione del Governo, è la dimostrazione evidente che quello che conta non sono le scelte politiche ma i comportamenti dei mercati, che non sono spontanei ma corrispondono a precisi interessi. Altro ambito importante, ma il nostro Paese essendo una media potenza può fare poco, è il controllo dell’intelligenza artificiale, che viene sviluppata soprattutto dai privati e non dagli Stati e produrrà degli sconvolgimenti epocali negli equilibri mondiali”.