Secondo quanto riportato nell’Italian Terrorism Infiltration Index 2019 ideato dall’Istituto Demoskopika che, a cadenza annuale, traccia una mappa delle regioni più a rischio potenziale di infiltrazione terroristica, sono oltre 5 i milioni di italiani che hanno deciso di rinunciare alle vacanze “fuori casa” di fine anno nelle città italiane o all’estero preferendo la maggior sicurezza delle mura domestiche.
Un dato eclatante ma non troppo considerato che la problematica della sicurezza e del terrorismo, strettamente connesse e inscindibili, pur non rappresentando una materia di tendenza nel panorama dei social network e dell’editoria nostrana, rappresenta pur sempre una significativa “area di rischio” per l’economia nazionale e il vivere quotidiano.
Di per sé, l’attenzione verso la tematica della percezione del rischio terrorismo va di pari passo con gli allarmi globali o regionali (l’Europa) scanditi in occasione di attacchi più o meno eclatanti in base ai parametri dell’impatto mediatico e del danno procurato.
Ma il fattore del “rischio terrorismo” percepito dovrebbe essere caratterizzato da una trattazione quotidiana e senza soluzione di continuità sia da parte degli enti preposti alla sicurezza sia anche dal comune cittadino in base al criterio della “sicurezza partecipata” più volte evocato ma non considerato prioritario rispetto ad altre emergenze.
La semplicità nel linguaggio nella trattazione della materia “sicurezza” dovrebbe essere alla base della comunicazione rivolta al cittadino rendendolo conscio della problematica e delle eventuali emergenze senza cadere nei troppi tecnicismi che renderebbero noioso e incomprensibile un’argomento già di per sé non certo facile da affrontare ed esporre.
Ed è proprio il “linguaggio ostile” quello che probabilmente rende frequenti le “crisi di panico” tra i cittadini, come rilevato dallo studio di Demoskopika che ha evidenziato come l’allarme sia diffuso in ampi strati della popolazione con i giovani (13,8%) assai più consci della problematica rispetto alle fasce di età più avanzata.
Di sicuro, l’identificazione del semplice “diverso” come nemico non aiuta nella comprensione di un fenomeno che ha radici ben più profonde e che, comunque, incide profondamente nel vivere quotidiano.
L’alternarsi di periodi di pace a momenti di profondo allarme non rappresenta un sinonimo di garanzia, anzi. Gli “alert” provenienti da fonti ufficiali sembrano più il frutto di uno scarico di responsabilità piuttosto che dell’analisi di seri e specifici indicatori di rischio per la sicurezza.
Per gli addetti allo studio del fenomeno del terrorismo teso alla prevenzione, è sempre più una scommessa lo sbilanciarsi in previsioni a breve termine. Il rischio è quello di essere smentiti dopo poche ore dall’innescarsi di una “cellula dormiente” o di un lupo solitario che decidono di passare all’azione senza alcun preventivo segnale e smentendo gli elementi di analisi forniti in relazione a quanto percepito dagli addetti alla sicurezza.
In questo il terrorismo rappresenta un’incognita che certamente ci accompagnerà ancora per decenni.
Un’attività di prevenzione basata sullo studio di dati certi e incontrovertibili è già in atto da anni ed i risultati , anche eclatanti, sono stati conseguiti pur senza incidere sensibilmente sull’andamento quasi ciclico del fenomeno.
Momenti di grande tensione sono stati intervallati da periodi di relativa calma senza che questi abbiano certamente rappresentato un’effettiva riduzione del rischio ma unicamente una pausa più o meno breve nella conduzione delle varie campagne, da quella jihadista a quelle dell’eversione nera o rossa.
Nell’ultimo ventennio lo jihadismo ha rappresentato, e rappresenta, una criticità assoluta in termini di percezione del rischio e, come evidenziato dal passaggio del “pericolo al Qaeda” a quello dello Stato islamico, ha manifestato un’estrema vitalità nel riproporsi sotto nuove vesti per molti aspetti non preventivate.
Ancor più se si pensa al continuo ricambio di cui fruiscono i network del terrore islamista in termini di numeri forniti dall’alto tasso demografico di specifici Paesi esportatori di “soggetti a rischio” che continueranno ad alimentare il bacino degli adepti della Jihad per lungo tempo a venire inflazionando così il mercato della paura sia nelle aree originarie sia in quelle di destinazione.
Il rischio reale e quello percepito, per anni inversamente proporzionali, sono condotti a fondersi in una percezione di insicurezza generalizzata che comporta l’identificazione del “nemico” di volta in volta rivolta a un singolo, a una collettività o a problematiche, quali l’immigrazione, che se è vero che hanno ampie aderenze con il fattore terrorismo, per altri versi dovrebbero comportare un diverso approccio, anche da parte dell’Esecutivo in carica.