Alla fine il Gen. Khalifa Haftar ha rotto gli indugi ed ha consegnato al mondo una precisa, per altri versi scontata, dichiarazione con la quale ha esplicitato la solidità della sua alleanza con il Cremlino: una dichiarazione accolta con gioia dal ministero della Difesa Russo. Tra i vari osservatori, vi è chi in questa esternazione di Haftar ha voluto vedere la concretizzazione del primo passo sulla via da lui tracciata con l’intento di fare della Libia orientale un hub strategico per gli interessi di Mosca in Africa, ovverosia di quegli interessi divenuti prioritari dopo che il ridimensionamento siriano é apparso come un evento che ha messo Mosca nella condizione di dover puntare a cercare nuove aree di influenza, anche se questa lettura appare decisamente riduttiva e fuorviante visti gli accordi stipulati da Haftar con la Turchia
Una Turchia che, con l’accoglimento di Hamas e il supporto al siriano al-Joulani, novello propulsore della sin qui silente Jihad politica, promette, per il suo apparentamento a Mosca, ed ora pure –come detto– ad Haftar, di costituirsi a breve come il potenziale sostenitore in chiave Proxy della lunga marcia di Mosca verso il Mediterraneo e le sue sponde meridionali, con zona di frizione tra est ed ovest nei Balcani: un’area estremamente calda poco presa in considerazione anche dai media.
Indubbiamente molta acqua é passata sotto i ponti da quando nel 2020 il Generale fu respinto da Tripoli grazie ai droni Bayraktar turchi, la società che ha acquisito l’italiana Piaggio Aerospace, approvata, con la oramai consueta ben poca lungimiranza, dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy nel dicembre 2024.
Ora, se per un verso appare più che plausibile ai più che l’attuale riconciliazione possa essere letta come dettata dal senso pratico di un Haftar che ha saputo cogliere, da abile scacchista, il contingente bisogno primario di una Turchia oltremodo desiderosa, in questa fase, di mutare il ruolo ed il peso geopolitico delle sue basi militari nella Tripolitania rivale grazie alla unificazione delle varie fazioni libiche, é altrettanto vero che non può essere passato sotto silenzio il forte legame storico a quella Russia che negli anni che furono lo ha formato come militare, politico e spia del KGB.
Ed infatti, se per certo l’obiettivo di giungere ad una diversificazione delle alleanze al fine di ridurre la sua dipendenza da Egitto ed Emirati, come pure quello di tenere contemporaneamente buoni rapporti con la Russia, la Turchia e gli Stati Uniti, non vanno sottovalutati in un contesto che, comunque sia, vede Mosca ed Ankara collaborare con la Libia, ma senza rinunciare ai propri interessi in Tripolitania, non possiamo esimerci dal tenere presente che il pragmatico Haftar é stato e resta un personaggio decisamente imprevedibile il cui laicismo potrebbe alla fine apparentarlo a quell’al-Joulani che bene ha compreso che la strada jihadista che passa per il fanatismo religioso, quello che in Teheran ha sin qui avuto il suo punto di riferimento, ha i giorni, se non le ore, contate in quanto, alla fine, é l’equilibrismo in stile Haftar, quello che sceglie la rotta a seconda dei venti a “favore” o “contrari”, il solo modus operandi che può ribaltare completamente gli scenari e gli equilibri del Mediterraneo e di conseguenza quelli globali.
Il che ci porta ad una interessante digressione che per permetterci di meglio comprendere chi è Khalifa Haftar, l’uomo che vi è stato chi ha definito la spia che viene dal freddo, prende le mosse a partire dai lontani inizi del 2023, ovverosia da quanto avveniva, ad oltre dieci anni dalla fine cruenta della dittatura di Muammar Gheddafi, in quella Libia che ancora continuava ad essere una nazione spaccata in due: da una parte il governo filo-occidentale di Tripoli, guidato da Fayaz Al-Serraj, e dall’altra il governo filo-russo del generale Haftar, che controllando il 90% dei pozzi petroliferi libici alla fine si configurava come una spina nel fianco della politica energetica di quell’Occidente gravato dal peso delle sanzioni internazionali contro la Russia.
Un contesto, questo, in cui non può essere dimenticato che Haftar, prima di tornare in Libia a combattere contro Gheddafi, aveva vissuto per 20 anni a pochi metri dalla sede della CIA, in Virginia, ed era considerato un alleato fidato dell’Occidente in virtù dell’ennesimo errore di valutazione di quegli Stati Uniti che hanno mancato clamorosamente di tenere in debito conto che Haftar a suo tempo era stato educato e addestrato come militare e come spia nell’Unione Sovietica, in una scuola d’élite vicina al KGB, e successivamente aveva continuato a collaborare con i servizi segreti russi, sia che vivesse in America, sia che fosse in Libia.
Peccato che sia stato necessario attendere il maggio 2025 per rendersi conto che Haftar non è solo un militare che, in nome e per conto della Russia e degli Emirati Arabi Uniti, ha impedito all’Occidente di riunire la Libia ed accedere liberamente al petrolio, ma era, e verosimilmente é ancora anche un personaggio di spicco di una rete dedita al contrabbando degli idrocarburi, delle armi, dei migranti nonché allo spostamento di immense quantità di denaro offshore – denaro che, stampato su ordine del governo di Mosca, ha pervaso la Libia permettendo a diversi gruppi ribelli di restare attivi ed armarsi, ed aumentando la ricchezza personale di questa spia che, come nel famoso romanzo di John Le Carré, vive ai margini del deserto del Sahara, ma in realtà è venuto dal gelo moscovita.
L’ambiguitá strategica del gen. Haftar, evidenziatasi ampiamente ulteriormente ai primi del gennaio 2023 per i suoi oscuri rapporti con le milizie della Wagner (la ben nota, all’epoca, compagnia di contractor russa usata dal Cremlino quando impossibilitato ad operare direttamente con proprie truppe) per l’acquisizione del controllo del petrolio libico e dei siti di stoccaggio dello stesso al fine di favorire, in barba alle sanzioni volute da Washington, il contrabbando del petrolio russo, è da sempre stata una prerogativa di questo strano personaggio che i più già all’epoca reputavano –non era dato sapere se a torto o a ragione, ovvero per conto di chi ed a quale scopo– non avere mire politiche, ma solo il desiderio di vedere riconosciuto il proprio ruolo di esperto ed indiscusso capo militare, ufficialmente animato da uno spirito laico, che apparentemente si era dato, tra i vari obiettivi, quello di contrastare la fratellanza musulmana.
Tra le varie pagine della sua movimentata esistenza ve ne è una che pochi all’epoca timidamente stavano prendendo in considerazione: mi riferisco a quella che lo ha visto legato all’Eliseo ed alle mire di questo tutte tese ad assicurare uno sbocco sul Mediterraneo alle, di fatto, per lo meno all’epoca, sue province dell’Africa Occidentale, come pure a garantirgli un qualsivoglia primato nella leadership dell’Unione Europea: un primato che fino alla fine dell’era Merkel é stato –sia pure con alti e bassi– saldamente nelle mani della Germania.
In questo contesto, come già emerso ed evidenziato a più riprese pure dalla stampa specializzata, ha giocato a favore di Haftar e di Parigi l’assurda posizione assunta non solo dal Governo italiano dell’epoca, ma anche globalmente da pressoché tutta la comunità internazionale schieratasi a favore dell’allora Governo di Tripoli guidato da un Al-Serraj e successivamente da un Abdul Hamid Mohammed Dbeibeh, uomo d’affari legato alla Turchia, benvisto stranamente anche a Mosca e gradito dall’ONU.
Un Abdul Hamid Mohammed Dbeibeh parimenti debole ed incapace di contrastare le spinte centrifughe delle milizie locali e men che mai di quelle islamiste, supportate dai Governi dell’Arabia Saudita, del Quatar e dell’Egitto, che vedono giocare un ruolo politico non secondario da veri e propri loro emissari nel Governo di Tripoli.
Tanto nonostante la presa di posizione vincente assunta proprio da Abdul Hamid Mohammed Dbeibeh a maggio del 2022 nei confronti del tentativo di Fathi Bashagha –il capo del governo scelto dal Parlamento di Tobruk nonché uomo graditissimo dal gen. Haftar , l’uomo forte appoggiato dalla Russia e dall’Egitto– di prendere il comando a Tripoli.
Questo per non parlare del sostegno economico ricevuto dagli Emirati Arabi, che hanno fornito i denari con cui Haftar aveva mosso guerra a Tripoli nella II Guerra Civile Libica, e della Francia che per l’occasione aveva messo armi, istruttori militari e intelligence a disposizione del nuovo Gheddafi
La partita a Risiko libica è stata palesemente fin da subito una di quelle in cui i giocatori paiono agire senza mostrare la benché minima logica e coerenza a causa del costante sovrapporsi di esigenze ed obiettivi non solo apparentemente ma effettivamente contrastanti tra loro, una di quelle partite in cui è sempre bene guardarsi, prima ancora che dai dichiarati nemici, dagli apparenti alleati.
In questo contesto l’aspetto più paradossale della crisi libica stava nel coro che da ogni parte si era levato a più riprese a favore di una palesemente assurda “soluzione politica” chiesta dall’Italia, dagli USA, dall’infingarda Francia e dai non meno inaffidabili Emirati Arabi Uniti in una dichiarazione congiunta; soluzione quasi implorata dall’Onu per tramite di Ghassan Salamè, inviato speciale per la Libia, e dallo stesso Segretario Generale, Antonio Guterres, nonché, a suo tempo, auspicata perfino dalla Russia -forse perché tagliata fuori dai giochi magrebini dell’epoca-, come pure dal G7 e da una perennemente miope Unione Europea.
Assurda in quanto obiettivo non perseguibile allorché sul terreno era presente, come ora del resto, una forza militare ben organizzata e meglio armata che, non a caso, confidava ancora all’epoca come in passato nella “soluzione militare”: l’Esercito Nazionale Libico guidato proprio da Khalifa Belqasim Haftar, l’ex generale di Gheddafi, l’ex insorto anti-Gheddafi già all’epoca candidato autorevolissimo al ruolo di Gheddafi 2 “la vendetta”, nonché Signore indiscusso della Sirte, colui che quando aveva qualcosa da dire si faceva precedere da un congruo numero di missili e veicoli blindati che riuscivano quasi sempre a essere piuttosto convincenti.
Tra le varie posizioni che qui, in questa analisi dei prodromi, meritano di essere prese in esame vi era quella della Francia che sottobanco ha fatto l’impossibile per far fallire la Road Map ufficiale (quella tracciata dall’ONU ed abbracciata anche dall’Italia, tanto per intenderci) con il preciso intento di lasciare Roma alle prese con i flussi migratori, gli approvvigionamenti petroliferi e le questioni di sicurezza legate agli incroci tra flussi, petrolio e terrorismo, anche se a ben guardare l’obiettivo di Parigi era non tanto il nostro Paese ma la Germania.
Per avere buon gioco la Francia si è avvalsa dell’appoggio del gen. Haftar che in questo caso è stato, con troppa supponenza da parte dell’Eliseo, trattato come l’utile idiota al posto giusto nel momento migliore: quello a cui delegare il lavoro sporco, far fare la voce grossa e prendersi le luci della ribalta per consentire ai troppo autoreferenziali Francesi di giocare indisturbati le proprie carte.
Come noto a certi livelli, la politica estera (altrimenti detta: difesa dell’interesse nazionale nell’agone internazionale) non si può fare con le buone intenzioni: quella francese del 2011 consistette di una guerra che, di fatto, distrusse la Libia: una guerra che invece di contrastare ci vide giocare il ruolo subalterno tipico dagli yes-men di turno alla guida di un Paese a sovranità limitata.
Per quello che riguarda l’Italia vi è da dire che gli inizi del 2017 il Governo Gentiloni, per mezzo del Ministro degli Interni Minniti, per l’esattezza il 2 Febbraio, siglò il famoso accordo con Tripoli per la stabilizzazione del Paese, il contrasto al traffico di esseri umani e la cooperazione contro il terrorismo: un patto che molti stigmatizzarono in quanto tale invece di stigmatizzare l’immobilismo di Roma tanto nell’operare fattivamente per implementarlo quanto per sostenere, rafforzandolo, il Governo di Al-Serraj.
Un rafforzamento, quello del Governo di Tripoli, che avrebbe consentito allo stesso di mettere sotto controllo il confine con il Niger, ossia quel confine che poiché non presidiato è stato usato proprio da Haftar come un rubinetto per regolare a piacimento l’afflusso di migranti africani verso il Mediterraneo e da qui verso le coste europee: perché, e questo va detto a chiare lettere, quello dei flussi migratori è un qualcosa che ha una valenza strategica di stampo militare prima ancora che un fenomeno storico-sociale caro, sul piano mediatico, alle solite ONG ed ai “benpensanti” di ogni età.
Merita qui sottolineare, per volutamente stigmatizzare la sorpresa che ha accompagnato la recente dichiarazione del Gen. Haftar quanto al suo apparentamento a Mosca, che già agli inizi del 2023 era la Wagner a fare per conto di Mosca, con l’appoggio del solito Haftar, quello che all’epoca fece Haftar in prima persona per conto di Parigi, magari pure con il beneplacito degli Stati Uniti per ragioni che appariranno a breve più che evidenti.
Per quanto riguarda la posizione della Francia è indicativo quanto accadde nel 2016 allorché Giulio Regeni fu assassinato al Cairo da agenti dei servizi di sicurezza: in quell’occasione l’Italia aprì una crisi diplomatica con l’Egitto e richiamò l’ambasciatore, ma tempo mezz’ora e al Cairo sbarcó il presidente francese Hollande, che firmò 30 accordi commerciali e concesse una serie di prestiti con cui Al Sisi fece incetta di armi francesi, quell’Egitto che con la Francia sosteneva Haftar nonostante tutti i dinieghi di Parigi che nel 2019 a gran voce si affrettò a rigettare con sdegno le accuse di Al-Serraj definendole destituite di ogni fondamento.
Accuse che vennero mosse nuovamente nel 2020 a ragion veduta in quanto a muovere l’Eliseo vi erano tre ben precise ragioni:
- la lotta agli islamisti in particolare in Ciad;
- le riserve petrolifere della Libia orientale che i Francesi speravano di garantirsi qualora Haftar fosse riuscito a consolidare il suo potere nella regione;
- gli stretti legami della Francia con gli Emirati Arabi Uniti, il Paese che sostiene più attivamente Haftar e nel contempo sono anche un grande cliente dell’industria degli armamenti francese.
A queste, storicamente, ne possiamo aggiungere, a mio avviso, una quarta che discende direttamente dalla sponsorizzazione di Trump ad Haftar (uomo rimasto a lungo vicino alla CIA) per ragioni che possono essere così riassunte:
- l’acquisizione del controllo da parte statunitense delle riserve petrolifere libiche
- la gestione dei flussi migratori dal nordafrica verso le coste meridionali dell’Europa: un qualcosa che vedeva in prima battuta una certa sintonia tra Parigi e Washington (anche se per ragioni diametralmente opposte) in quanto per tramite della gestione di questi flussi garantita da Haftar:
- Parigi avrebbe beneficiato della messa in crisi, a totale proprio vantaggio, della leadership tedesca in ambito comunitario per l’incapacità di Berlino di dare vita ad una regolamentazione dei flussi stessi oltre che di farsi promotore di una gestione congiunta dei migranti in ambito europeo che disinnescasse i fermenti autonomisti dei sovranisti e dei nazionalisti europei, fermenti che minavano la stabilità della stessa divisa europea;
- Washington avrebbe beneficiato per le ragioni testé esposte al punto a) dell’indebolimento del maggiore fautore del progetto di unificazione europeo: la leadership tedesca.
Questa solo apparente cointeressenza tra Parigi e Washington ebbe termine allorché Macron, agli inizi di novembre del 2018, forse poco consapevole delle conseguenze delle proprie parole, dichiarò di puntare alla costituzione di un esercito europeo, ossia alla costruzione di uno strumento imprescindibile per poter anche solo pensare ad un ruolo autonomoin politica estera di uno Stato Europeo unitario e sovrano.
Detto per inciso, viste le scelte attuali in materia di difesa europea, é interessante notare come all’epoca l’Italia declinò l’invito a partecipare a quel progetto: un fatto, questo che dovrebbe non poco farci riflettere sulle reali ragioni.
Di lì a poco la Francia fu scossa dalla protesta violenta dei Gilet Gialli che, a partire (un caso?) dalla settimana 17-23 novembre 2018, misero a ferro e fuoco perfino Parigi indebolendo non poco la posizione dell’Eliseo che, a mio avviso non a caso “mangiata la foglia”, si affrettò ad accordarsi con Berlino per la sottoscrizione in tutta fretta, con ben 5 anni di anticipo, del Trattato di Aquisgrana di integrazione politica, economica e sociale dei due Paesi, in calce al quale Macron ed Angela Merkel apposero le proprie firme il 22 gennaio 2019: un accordo non molto gradito oltreoceano.
In mezzo a tutto questo un Haftar disponibile a tutto pur di affermare il proprio ruolo.