L’immagine che meglio sintetizza la geopolitica di Papa Francesco è forse quella dell’8 luglio 2013, a Lampedusa. Il Papa solo, sul molo, getta in mare una corona di fiori per i migranti morti nel Mediterraneo. Era il suo primo viaggio apostolico, a pochi mesi dall’elezione, e già conteneva il segno del suo pontificato: l’inversione di rotta rispetto alla Chiesa centrata su Roma e l’Europa, per “andare verso le periferie”. Quel gesto, che denunciava la “globalizzazione dell’indifferenza”, diede il via a un’azione diplomatica dai contorni innovativi ma controversi.
Nel corso di 12 anni al soglio Pontificio, Jorge Mario Bergoglio ha trasformato la Santa Sede in un attore globale dalla voce forte ma non sempre chiara. I suoi viaggi in aree di conflitto, dal Centrafrica all’Iraq, dal Congo al Sud Sudan, hanno veicolato messaggi potenti. Ma le scelte di interlocuzione con regimi autoritari, i silenzi selettivi e alcune dichiarazioni ambigue hanno alimentato un dibattito acceso. Il Papa “venuto dalla fine del mondo” ha diviso, anche dentro la Chiesa.
Iran e Cina: diplomazia opaca
Due dossier emblematici della linea bergogliana sono i rapporti con Cina e Iran. Con Pechino, la Santa Sede ha firmato nel 2018 un accordo provvisorio (rinnovato nel 2020 e 2022) sulla nomina dei vescovi, nel tentativo di ricomporre la frattura tra la Chiesa “ufficiale” riconosciuta dal regime e quella “clandestina” fedele a Roma. L’accordo, i cui contenuti restano a tutt’oggi segreti, prevede una partecipazione delle autorità cinesi nella selezione episcopale, con il Papa che mantiene l’ultima parola. Una strategia “del micro-passo”, come la definisce il Vaticano.
Ma la realtà è più grigia. Numerose diocesi restano senza guida, alcuni vescovi sono agli arresti domiciliari e Pechino avrebbe compiuto nomine unilaterali in violazione dell’intesa. Ma Francesco ha continuato a difendere questa linea: “Mi assumo tutta la responsabilità”, ha dichiarato. Tuttavia i critici, anche dentro la Chiesa, parlano di “svendita” a un regime repressivo. Non a caso, Bergoglio ha scelto un silenzio pressoché assoluto su temi sensibili per Pechino come Hong Kong, gli Uiguri e la persecuzione religiosa. Una prudenza che stride con la franchezza palesata in altri contesti.
Analoga ambiguità emerge nel rapporto con l’Iran. Se è vero che la Santa Sede intrattiene relazioni diplomatiche con Teheran dal 1954, Papa Francesco ha rafforzato il legame attraverso atti simbolici e dichiarazioni di stima. L’incontro a Najaf con l’Ayatollah Ali al-Sistani, leader della comunità sciita irachena, nel marzo 2021, ha segnato un punto di svolta nel dialogo proprio con il mondo sciita. Ma dopo l’inizio della guerra a Gaza, il 7 ottobre 2023, Papa Francesco ha scelto di telefonare direttamente al presidente iraniano Ebrahim Raisi, chiedendo un aiuto per fermare l’escalation. Nei giorni precedenti, invece, ci sono stati altri colloqui telefonici del Papa: il 2 novembre col presidente dell’ANP Mahmoud Abbas, il 26 ottobre con il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan e il 22 ottobre con il presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Una diplomazia a tutto tondo si potrebbe dire, anche se il dialogo con l’Iran ha sollevato interrogativi: perché affidarsi a uno degli sponsor principali di Hamas per negoziare la pace? Perché non una parola più netta sul ruolo destabilizzante di Teheran in Medio Oriente, dal Libano allo Yemen? La scelta sembra confermare una visione diplomatica che privilegia il dialogo anche a costo della chiarezza morale.
Gaza, Israele e il “velato” antisemitismo
Il nodo più critico, tuttavia, riguarda la gestione papale della guerra tra Israele e i terroristi arabo-palestinesi di Hamas. Dopo il massacro del 7 ottobre, compiuto dal gruppo palestinese, ci si aspettava una condanna netta. Ma Francesco ha evitato con insistenza di nominare Hamas, preferendo parlare genericamente di “violenze” e “massacri”. Nei giorni successivi, i suoi appelli sono stati diretti quasi esclusivamente contro l’operazione militare israeliana a Gaza: “Fermatevi! In nome di Dio, basta massacri!” ha detto, suscitando l’ovazione di alcuni, ma anche sconcerto nella comunità ebraica internazionale nonostante gli appelli per la liberazione degli ostaggi.
L’impostazione papale è apparsa a molti sbilanciata e ambigua. La condanna del terrorismo è stata blanda, mentre le parole verso Israele sono state taglienti. A peggiorare la situazione, alcune scelte simboliche. Tra queste, quella durante il Natale 2024, quando un presepe allestito nell’Aula Paolo VI in Vaticano, raffigurava Gesù bambino avvolto in una kefiah, la tipica sciarpa palestinese. Un messaggio politico travestito da spiritualità, che ha scatenato le proteste della comunità ebraica italiana. Il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, ha parlato apertamente di “strumentalizzazione della religione”.
Non è stato un caso isolato. In un’udienza con giovani arabo-palestinesi, il Papa ha ascoltato testimonianze commoventi, ma senza menzionare mai i 1200 israeliani uccisi o i civili presi in ostaggio. Solo dopo settimane ha incontrato anche alcune famiglie delle vittime, in un gesto considerato tardivo da molti. L’ambasciata israeliana presso la Santa Sede ha espresso “profonda delusione”, e persino il Ministero degli Esteri ha criticato il Vaticano per la sua “mancanza di equilibrio”.
E poi ci sono le parole contenuto nel libro ‘La speranza non delude mai. Pellegrini verso un mondo migliore’, dove Bergoglio invita ad indagare sulla possibilità che a Gaza sia in corso un genocidio: “A detta di alcuni esperti – si legge – ciò che sta accadendo a Gaza ha le caratteristiche di un genocidio. Bisognerebbe indagare con attenzione per determinare se s’inquadra nella definizione tecnica formulata da giuristi e organismi internazionali”.
Papa Francesco e l’Ucraina
Anche la guerra in Ucraina ha visto il Pontefice impegnato. Da quando la Russia ha invaso l’Ucraina nel febbraio 2022, il mondo si è diviso tra chi ha scelto da che parte stare e chi ha preferito restare in equilibrio sul filo del “né-né”. Papa Francesco, pur essendo la voce morale di oltre un miliardo di cattolici, ha scelto quest’ultima strada: quella di una neutralità che a tratti è sembrata indifferenza, e a volte persino complicità mascherata da prudenza diplomatica.
Fin dai primi giorni della guerra, Papa Francesco ha evitato accuratamente di nominare la Russia come aggressore. Quando il 25 febbraio 2022 si recò a sorpresa all’ambasciata russa presso la Santa Sede, molti videro in quel gesto un atto forte. Ma fu solo l’inizio di un lungo silenzio sui veri responsabili del conflitto. Nei suoi Angelus, il Papa ha preferito parlare di “guerra assurda” e “tragedia umanitaria”, senza mai attribuire responsabilità chiare. La sua retorica ha finito per appianare le colpe, rendendo l’invasione un dramma indistinto, come se fosse scoppiato un uragano, e non un atto deliberato di aggressione da parte del Cremlino.
La scelta del Pontefice è sembrata orientata più alla salvaguardia dei rapporti con il Patriarcato di Mosca e con il presidente Putin che alla difesa del popolo ucraino. Non a caso, nell’unico colloquio avvenuto con il Patriarca Kirill (marzo 2022), Francesco si limitò a dire che “non possiamo essere chierichetti del potere”, senza mai contraddire direttamente il capo della Chiesa ortodossa russa che benediceva i carri armati. Un’affermazione simbolica, ma debole, se si considera che da parte vaticana non è mai arrivata una condanna esplicita del ruolo religioso nella propaganda di guerra russa. All’inizio del conflitto un’altra affermazione ha suscitato più di qualche dubbio quando Papa Francesco quasi giustificò l’invasione russa visto “l’abbaiare della Nato alla porta della Russia” che avrebbe provocato “un’ira che non so dire se sia stata provocata, ma facilitata forse sì”.
Francesco ha anche evitato di sostenere apertamente l’autodifesa dell’Ucraina. Anzi, ha lanciato appelli a fermare le armi, a “non inviare più strumenti di morte”, di fatto dimostrando uno squilibrio della propria posizione, come se i carichi di armi destinati a Kyiv dall’UE in chiave difensiva e quelle di Mosca utilizzate per l’aggressione ad uno Stato sovrano, fossero la stessa cosa. Il diritto alla difesa del popolo ucraino è stato sistematicamente ignorato o ridotto a un “errore speculare” rispetto all’aggressione russa. In questa equidistanza, molti ucraini hanno visto non un appello alla pace, ma una resa morale. Non sorprende che lo stesso ambasciatore ucraino presso la Santa Sede, Andrii Yurash, abbia più volte espresso imbarazzo per le parole del Pontefice.
Il culmine della confusione è arrivato con la Via Crucis 2022, quando il Papa decise di far portare la croce a due donne — una ucraina e una russa — come segno di riconciliazione. Un gesto teatrale che mise sullo stesso piano vittime e carnefici, suscitando la reazione indignata di Kyiv. L’iniziativa fu modificata all’ultimo momento, ma il danno era fatto.
Nel 2023, Bergoglio ha avviato una “missione di pace” affidata al cardinale Zuppi, che ha viaggiato tra Kyiv, Mosca, Washington e Pechino. Una mediazione simbolica, priva di efficacia reale. Il Papa ha parlato di “umanitarismo”, di scambio di prigionieri, di restituzione dei bambini deportati, ma senza mai mettere Mosca di fronte alle proprie responsabilità. Ha consacrato Russia e Ucraina al Cuore di Maria, gesto spirituale apprezzabile, ma insufficiente.
La scelta di non schierarsi con chiarezza, di evitare ogni parola che potesse irritare il Cremlino, ha fatto sì che Francesco perdesse il ruolo di “coscienza morale” universale. Peggio: lo ha reso agli occhi di molti un leader spirituale pavido, incapace di dire “aggressore” e “aggredito”, continuando a ripetere che “nessuna guerra è giusta”. Ma l’assenza di condanna concreta diventa, di fatto, una copertura diplomatica. In nome del dialogo con tutti, Bergoglio ha dimenticato che ci sono momenti in cui tacere il nome del male non è prudenza: è corresponsabilità.
Il gesuita argentino che ha diviso la Chiesa
La linea geopolitica di Francesco – dialogante, multilaterale, misericordiosa – si è spesso scontrata con il giudizio di chi chiede chiarezza morale e coerenza dottrinale. Ma non è solo una questione internazionale. All’interno della Chiesa, la “diplomazia bergogliana” ha contribuito a creare una frattura profonda. Tra “bergogliani” e “non bergogliani” la tensione è palpabile, soprattutto su temi di etica, liturgia, autorità e politica internazionale. Molti prelati, soprattutto nei paesi di tradizione cattolica europea e nordamericana, hanno guardato con sospetto alla linea del “pontefice gesuita” che ha dialogato con dittature ma è rigido con chi, nella Chiesa, difende posizioni tradizionali. Non è un caso che proprio tra i cardinali e i vescovi degli Stati Uniti – uno dei paesi in cui il Papa ha avuto i rapporti più conflittuali – sia cresciuto il malcontento. Le sue parole sui migranti, la sua critica al “capitalismo sfrenato” e il suo sostegno a politiche ambientali lo hanno reso popolare presso i liberal, ma isolato tra i conservatori.
Anche l’apertura verso movimenti popolari e la denuncia del “neocolonialismo economico” sono stati interpretati da alcuni come un’esaltazione ideologica di sinistra, più che un appello evangelico. Ma Francesco sembrava accettare il prezzo delle polemiche pur di portare avanti il suo progetto.
Papa Francesco influencer e “costruttore di ponti”?
Sul piano internazionale, Francesco ha goduto di un’alta reputazione come “voce morale”. Ma il suo soft power – fatto di gesti forti, appelli emozionali, parole rivolte ai “piccoli” – è apparsa spesso poco efficace per mancanza di coerenza tra i diversi scenari. La sua geopolitica è stata fatta di empatia, viaggi simbolici (oltre 40), mediazione spirituale. Ha aperto le porte del Vaticano a presidenti, imam, rabbini, e ha costruito ponti interreligiosi senza precedenti (come il Documento sulla Fratellanza Umana firmato ad Abu Dhabi nel 2019). Ma i ponti, a volte, sembrano reggersi su basi fragili.
Nel conflitto israelo-palestinese, in particolare, il Vaticano sotto Francesco ha abbandonato la tradizionale equidistanza. In nome del dialogo ha finito per trasmettere un’immagine parziale. La critica più grave, avanzata da alcuni osservatori ebrei e anche da intellettuali laici, è che la Chiesa bergogliana sia caduta in una forma di antisemitismo implicito, dove la sofferenza arabo-palestinese è universalizzata e quella israeliana relativizzata.
Un’eredità controversa
Dopo 12 anni di Pontificato, Papa Francesco ha senza dubbio ampliato l’orizzonte geopolitico del papato. Ha portato l’attenzione globale su temi spesso dimenticati (migrazioni, ambiente, periferie), ha rinnovato il linguaggio etico della diplomazia vaticana e ha tentato vie nuove di dialogo. Ma ha anche diviso la Chiesa, deluso alleati storici e sbilanciato equilibri consolidati.
È il prezzo della sua visione radicale, che ha suscitato speranze e tensioni, ma che difficilmente ha lasciato indifferenti. Il Papa arrivato dalla fine del mondo ha cambiato le regole del gioco. La domanda è se, alla fine, questo cambio sarà ricordato come un atto di coraggio profetico o come una stagione di ambiguità che ha messo in crisi l’identità stessa della Santa Sede come bussola morale universale.