a cura di Yamas e Francesca Musacchio
Rientrati a Gerusalemme prendiamo il treno della metrò leggera, alle cui fermate è sempre presente la vigilanza armata, le telecamere e il servizio di controllo dei tagliandi di viaggio. Ci avviamo verso Jaffa Gate che conduce alla vicina torre di David e, proseguendo, al Muro del pianto, confinante con la spianata delle moschee. La Città santa scorre sulla pelle come un brivido. Nonostante la calma apparente, nel suo ventre si nasconde il terrore e l’odio più profondo tra i popoli in nome di un Dio che, però, dovrebbe essere lo stesso per tutti.
Il venerdì, giorno di preghiera per i devoti musulmani, è vissuto con particolare impegno dalle forze addette alla sicurezza. In particolare per le vie del mercato nella città vecchia, il suk, i pattugliamenti appiedati di polizia, esercito e doganieri, si susseguono incessantemente. Alcune vie vengono sbarrate allo scopo di creare un filtro all’afflusso dei soli musulmani diretti verso la moschea di Omar o di quella della Rocca. Lo spiegamento di forze di sicurezza è notevole ma non soffocante. Nel labirinto di strade strette, affollate da turisti e mercanzie di ogni genere, a volte è difficile orientarsi. I corpi dei passanti si urtano, si sfiorano. Le vesti si intersecano con il vento, mentre l’odore di incenso e spezie riempie l’aria. In sottofondo il richiamo alla preghiera del muezzin, viene coperto dai rintocchi delle campane e dalla litania della preghiera ebraica. Come un cocktail tutto si mescola, anche gli sguardi.
Poliziotti e militari sono disseminati in prossimità dei vari ingressi alla zona delle moschee da dove controllano il continuo flusso di persone che costituiscono una sorta di Babele. Anche in questo caso notiamo che cristiani, musulmani ed ebrei si incrociano per le stradine anguste. Tutti, o quasi, indossano abiti tradizionali: quello talare per i preti cattolici, completi neri e cappelli per gli haredim, kufi e jallabya per i devoti dell’Islam. I simboli religiosi vengono, infatti, ostentati con orgoglio dai devoti di ogni credo. Anche i negozi a lato dei vicoli offrono simboli religiosi in maniera indistinta. Così, presso i venditori, notiamo l’afflusso di comitive di turisti che affollano i piccoli locali adibiti alla vendita. C’è chi è alla ricerca di un tasbeh, il rosario musulmano, chi di un crocefisso, chi della kippah ebraica. Le guide turistiche non sono certo monopolizzate dagli israeliani,anzi, tra loro conosciamo diversi palestinesi, alcuni europei e sacerdoti cattolici. L’immagine è notevole, rispetto agli standard occidentali.
Il sabato, lo Shabbat, è il giorno di festa per i credenti di religione ebraica e la città si ferma completamente. Sono garantiti solo i servizi di soccorso, mentre il trasporto pubblico e devoluto ai soli taxi, ovviamente condotti da arabo-palestinesi che per l’occasione fanno lievitare i costi delle corse il cui standard e di pochi shekel, aumentandoli grossolanamente per il servizio “festivo”. Poca cosa rispetto alle tensioni che ci aspettavamo.
Approfittiamo di questa pausa di 24 ore della vita cittadina per addentrarci nuovamente nel mercato della città vecchia che, dato il giorno festivo, è molto meno brioso rispetti agli altri giorni. Il calo nell’afflusso di avventori nelle viuzze concede una relativa calma nella presenza di pattuglie di polizia, ma la sicurezza è comunque garantita da agenti esentati dal rispetto dello Shabbat, o non osservanti o di diverso credo religioso. Le telecamere che filmano 24 ore su 24 il continuo viavai nelle strade costituiscono un valore aggiunto alle forze dispiegate sul campo, mentre, nei centri commerciali della città, negli edifici governativi e, addirittura nei bagni pubblici, sono presenti metal detector e vigilantes di agenzie private.
Anche la vita notturna di Gerusalemme è “blindata”. Fuori dalla città vecchia ci sono locali e ristoranti frequentati da giovani e turisti che affollano il centro, passeggiando lungo l’immenso percorso di Jaffa street. Tra loro si alternano pattuglie delle forze dell’ordine, a piedi, in moto, in auto. Fermi agli incroci, agenti in borghese (sebbene riconoscibili), controllano armati il movimento della movida.
Giunti all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv-Yafo per il volo di ritorno, ci sottoponiamo volentieri ai controlli che definire “di routine” è un mero eufemismo.
Sistemi di telecamere all’avanguardia riprendono i movimenti dei passeggeri, non escludendo, come già riscontrato a Gerusalemme, le riprese nelle sale fumatori, nei bagni e in ogni singola sala della stazione aeroportuale. Sono cinque i controlli ai quali si viene sottoposti, non escluso un innocuo interrogatorio al termine del quale, però, emergendo contraddizioni evidenti sui motivi del soggiorno in Israele o sulle frequentazioni di zone o persone ritenute “a rischio”, si può venire accompagnati presso la Dogana per ulteriori accertamenti.
Oltrepassati i controlli, ed avviandosi verso il gate di imbarco, ci si accorge che le “divise” sono scomparse. Sino alla scaletta dell’aeromobile, però, è impossibile non notare come tutto, o quasi tutto, il personale addetto agli imbarchi, agli uffici informazioni e alcuni addetti alle piazzole di sosta dei voli siano armati. Questa sorta di angeli custodi, per nulla invadenti, costituiscono un valore aggiunto alla piena sicurezza dei viaggiatori e l’ultima nostra annotazione sulla reale efficenza dell’apparato di prevenzione dello Stato ebraico che molti invidiano. Noi compresi.