In Afghanistan è giunto dunque il momento della “Ritirata”. Dopo 20 lunghi anni è formalmente iniziata la fase finale della “guerra eterna” americana (e della NATO).
Sabato 1 maggio – e fino alla fine dell’estate – sono iniziate le manovre che porteranno fuori dal paese, da alcuni definito “la Porta dell’Asia centrale”, circa 2.500/3.500 soldati statunitensi e quasi 7.000 soldati della NATO.
Di fatto la missione in Afghanistan iniziò ufficialmente il 7 ottobre 2001, all’indomani della tragedia delle Twin Towers, con l’obiettivo di stanare Osama Bin Laden (ucciso poi il 2 maggio 2011 nel corso della Operation Neptune Spear, un’azione militare condotta dai Navy SEAL nell’ambito della guerra al terrorismo), che nel frattempo si era rifugiato nel paese asiatico sotto la protezione del governo talebano. Due mesi dopo il regime dei talebani al potere si frantumò contro i pesanti bombardamenti delle forze aeree statunitensi che cancellarono – illusivamente – l’impronta dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan, riportando la capitale Kabul nelle mani delle milizie della “Shura-i-Nazar” (già nota come Alleanza del Nord) e spingendo alla fuga i militanti di Al Qaeda. Da allora Al Qaeda venne ridimensionata, mentre la minaccia terroristica si diffuse come un cancro globale ed in più ramificazioni.
Ma la guerra in Afghanistan si rivelò un’occasione mancata per gli Stati Uniti di mettere la parola fine alle velleità talebane e di lanciare un serio piano di stabilizzazione e pacificazione, complice sia una strategia di corto respiro della politica democratica americana, risucchiata allora dalle vicende della Guerra del Golfo che diventarono la priorità nell’agenda di Washington, ma anche una scarsa preparazione culturale della classe dirigente militare USA che non ha centrato tra le altre cose i giusti collaboratori locali.
Tutto ciò portò inesorabilmente ad una situazione di stallo, quasi ingestibile sul piano militare, che insieme ai costi esorbitanti della missione hanno definitivamente svuotato di significato il perché continuare a rimanere nel paese.
Il progetto denominato “Costs of War” della Brown University ha stimato che la missione USA in Afghanistan ha dissipato circa 822 miliardi di dollari.
Il progetto della Brown University ha documentato che dal 2001 hanno perso la vita circa 47.000 civili e a milioni sono stati gli sfollati all’interno dell’Afghanistan o che sono fuggiti in Pakistan, Iran ed Europa.
Anche l’esercito afghano ha subito perdite importanti: si contano circa 70.000 soldati uccisi negli scontri, mentre Il Dipartimento della Difesa di Washington ha affermato che dal 2001 sono stati circa 2.500 i soldati statunitensi a perdere la vita, oltre 21.000 feriti. Inoltre si stima che siano stati uccisi anche 3.800 appaltatori della sicurezza privata americana. Nel conflitto ci sono state anche 1.200 vittime nel personale dei paesi della NATO.
A testimonianza inoltre della dispendiosità dell’operazione Afghanistan, pare che servissero non meno di 4 miliardi di dollari l’anno da parte degli alleati per mantenere la sicurezza nel paese e sostenere le forze regolari del governo locale.
La ragione di questi costi esorbitanti era dovuto principalmente al fatto che gli Stati Uniti detenevano uno degli eserciti mondiali tecnologicamente più avanzato e moderno, anche se in definitiva le spese militari complessive in Afghanistan non sono mai state così trasparenti. Mentre molti dei costi diretti sono noti, i miliardi di dollari destinati alla CIA e alle operazioni speciali rimanevano coperti da segreto. Inoltre i costi indiretti della guerra, come ad esempio: il regolare pagamento dei militari, la svalutazione delle apparecchiature, l’usura, i costi sanitari a lungo termine, i costi per il sostegno del Pentagono all’interno degli USA, i costi del trasporto USTRANSCOM, i costi degli “hub” di trasporto come la base aerea di Manas, i costi per il prestito di fondi, ecc. non sono stati attentamente quantificati.
Senza poi contare la corruzione che in tutti questi anni ha cominciato a dilagare tra le fila dell’esercito di Kabul. Infatti, mentre si contano circa 300.000 soldati stipendiati, sembra invece che comincino ad affiorare indiscrezioni sul fatto che il numero effettivo delle unità fosse di molto inferiore e che alcuni comandanti afghani abbiano sempre intascato personalmente le rette dei cosìdetti “soldati fantasma”.
I talebani nel frattempo hanno continuato a detenere una posizione di forza
Dalla loro estromissione del 2001 i talebani ebbero tutto il tempo di riorganizzarsi e riguadagnare terreno ed oggi, sebbene non sia così semplice mappare i territori in cui hanno ristabilito la loro egemonia, si ritiene che, forti di almeno 85.000 combattenti, detengano il controllo totale su più di un quinto dell’Afghanistan.
Ma dopo oltre vent’anni di conflitti, tutte gli attori in gioco – il governo afgano, gli Stati Uniti e i talebani – hanno dato l’impressione di voler convergere verso un obiettivo comune, la pace.
Con l’accordo storico firmato a Doha dalle delegazioni talebane e americane il 29 febbraio del 2020, sotto l’amministrazione dell’ex Presidente Trump, gli Stati Uniti (e i paesi della NATO) si impegnarono ad un completo ritiro dalle basi militari e dall’Afghanistan a partire dal 15 gennaio ed entro il 1 maggio 2021. L’accordo denominato “Agreement for Bringing Peace to Afghanistan” prevedeva inoltre: il rilascio di prigionieri da ambo le parti, l’impegno da parte dei Talebani di rinunciare ad ogni legame e relazione sia con Al Qaeda che con i gruppi jihadisti sul territorio, la promessa di un tavolo di negoziati con il governo afghano e la discussione per un comune cessate il fuoco prolungato.
Tuttavia, pur avendo ottenuto gli USA un risultato senza precedenti che assicurava la fine delle ostilità, il governo afghano, ancora frammentato e fragile, ne usciva comunque indebolito dalla negoziazione, mentre i talebani, al contrario, furono rinvigoriti dalle promesse americane assumendo di fatto una posizione di forza.
Considerato tutto, il nodo principale da sciogliere era ed è rimasto il difficile confronto dei Talebani con la politica e la società civile afghana, e pur non volendo (apparentemente) per sè il monopolio del potere, sarebbero stati comunque pronti a condividerlo con le altre fazioni, ma in una forma diversa rispetto all’attuale governo e all’odierna Costituzione.
D’altro canto l’attuale governo avrebbe dovuto essere in grado di far fronte alle richieste pervenute dai talebani, dimostrando di poter ambire ad una società plurale e unita negli obiettivi comuni.
I negoziati sono proseguiti in Qatar nel settembre 2020 ma anche qui emersero le spaccature profonde nella delegazione governativa afghana, forse ancora divisi dal conteso esito delle elezioni presidenziali del settembre 2019.
Ma le cose non andarono come sperato ed i conflitti interni riemersero apertamente con violenza. I talebani dimostrarono ben presto che il “disengagement” americano era solo un pretesto per ottenere un vantaggio militare rispetto alle forze governative.
Infatti, da quando è stato raggiunto l’accordo per il ritiro degli Stati Uniti, i talebani raramente hanno ingaggiato le truppe alleate, piuttosto hanno continuato ad attaccare senza pietà le forze governative nelle province rurali e condotto una campagna di terrore nelle aree urbane.
Per altri versi i Talebani hanno sempre accusato Washington di aver violato gli Accordi in Qatar conclusi con Trump e di non aver rispettato i tempi stabiliti per il ritiro delle truppe dall’Afghanistan, e fino ad ora gli Stati Uniti non hanno mai avuto la certezza che non sarebbero stati attaccati dai ribelli integralisti durante le operazioni di rimpatrio.
In una recente dichiarazione, il portavoce militare talebano Zabihullah Mujahid ha affermato che il mancato rispetto da parte degli Stati Uniti dei termini fissati precedentemente per un ritiro completo delle proprie truppe “ha aperto la strada ai mujahidin (Emirato islamico dell’Afghanistan) per adottare ogni contromossa che ritenga appropriata contro le forze di occupazione”.
Il ritiro delle truppe statunitensi e della NATO ha comunque lasciato l’amaro in bocca al popolo afghano e agli stati confinanti.
Nella capitale afghana e in tutto il Paese cresce sempre di più il timore che alla partenza delle ultime truppe straniere seguirà il caos.
Sono ancora vivi i ricordi del periodo in cui il governo fondamentalista talebano sconvolse la società afghana cancellando le istituzioni democratiche e i diritti dei cittadini, in particolare quelli delle donne cui obbligava ad indossare il burqa (o chadri) dalla testa ai piedi.
Gli analisti avvertono che la violenza potrebbe aumentare drasticamente nel 2021 e che il processo di pace potrebbe crollare, aumentando la probabilità di una guerra civile estesa, con migliaia di vittime e con il contestuale attivismo di gruppi terroristici, in particolare ISIS e Al Qaeda.
Dopo miliardi di dollari spesi e decenni di guerra, molti afghani si chiedono se veramente ne fosse valsa la pena farlo il ritiro delle forze alleate, e soprattutto farlo adesso.