Russian golpe: the day after…with love! Con il passare delle ore e l’emergere di fatti nuovi sembra lentamente farsi sempre più evidente il complesso insieme di circostanze che parrebbero aver indotto Putin e Prigozhin a mettere su la complessa messa in scena, che recentemente ha preso le forme di un sempre più
ben poco credibile tentativo di Colpo di Stato. In precedenza ho già avuto modo di evidenziare in scritti mirati le ragioni che mi hanno indotto a ritenere il tutto, fin dall’inizio, una finzione scenica a partire dal fatto che, stando agli organi di stampa internazionali, Mosca era perfettamente edotta delle intenzioni di
Prigozhin (come del resto gli Stati Uniti), come pure di un certo malcontento degli oligarchi dell’entourage putiniano che con il trascorrere del tempo hanno fatto registrare un progressivo affievolimento del proprio incondizionato appoggio al Presidente, in quanto sempre più preoccupati per il futuro dei propri patrimoni visto il procrastinarsi del conflitto russo–ucraino e, conseguentemente, del regime sanzionatorio.
È molto probabile che Putin, perfettamente a conoscenza di questo stato di cose e della connivenza con gli oligarchi anche di diversi membri di spicco del Governo e delle Forze Armate, abbia in qualche modo concertato con Prigozhin la mossa passata al secolo con l’improprio appellativo di ‘tentativo di golpe’ che, a quanto pare, gli avrebbe consentito di prendere, come si è soliti dire, i classici due piccioni con una fava. In concreto Prigozhin si sarebbe di buon grado prestato a sbraitare contro i vertici della Difesa e delle Forze Armate, in un crescendo che gli guadagnasse consensi e credibilità tali da fare interpretare il suo agire come la traduzione operativa del suo sincero dissenso che volutamente è stato lasciato trapelare per trarre in inganno i Governi e le agenzie di intelligence occidentali. Alla fine, l’esiguità del numero di uomini impiegato –i 25.000 miliziani della Wagner di cui appena 5.000 avrebbero marciato su Mosca– avrebbe scatenato il panico in primis tra gli oligarchi favorevoli ad un golpe determinandone la precipitosa fuga.
Una valutazione questa, che potrebbe venire confermata a breve da una serie di ‘purghe’ ben calibrate anche se, personalmente, ritengo altamente improbabile che alla cosa verrebbe data ampia e diffusa
visibilità per ovvie ragioni di immagine, in quanto il tutto evidenzierebbe comunque una incrinatura della tenuta istituzionale dell’attuale establishment russo. In un tale contesto, la trattativa lampo del Presidente della Bielorussia sarebbe stata palesemente un escamotage per favorire il trasferimento di Prigozhin e di una parte della Wagner in Bielorussia, senza dare nell’occhio per una evidente volontà di portarsi a ridosso di Kiev al fine di ottenere due vantaggi molto importanti: in primo luogo lo spostamento di parte delle truppe ucraine dal fronte Est verso il Nord del Paese, con il conseguente
alleggerimento della pressione sul fronte orientale; in secondo luogo, la messa in conto della predisposizione della dislocazione delle truppe necessarie all’apertura di un eventuale secondo fronte generante una manovra a tenaglia su Kiev: una minaccia reale in quanto percepibile come tale seppure non
confermata da alcuna dichiarazione esplicita in tal senso.
Ora, come era logico attendersi, per la conferma del primo punto si dovrà aspettare ancora qualche giorno per opportunità strategica sicché non devono stupire: in primo luogo la presunta comparsa del ministro della Difesa russo, Sergei Shoigu, il 26 giugno 2023 in Ucraina per visitare le truppe schierate al fronte, come riportato dall’agenzia di stampa russa, Ria Novosti, che ha sottolineato come lo stesso non abbia
(per la verità alquanto stranamente) commentato in alcun modo quanto accaduto tra la serata di venerdì e la giornata di sabato, in circostanze per lui decisamente imbarazzanti essendo stato a più riprese chiamato in causa direttamente da Prigozhin, che tra le altre cose gli aveva espressamente chiesto un incontro a Rostov, città ‘conquistata’ dal gruppo Wagner all’inizio dell’ammutinamento. È tuttavia particolarmente interessante il rilievo fatto in tempo reale da alcuni blogger militari russi secondo i quali la visita di Shoigu non sarebbe avvenuta il 26 bensì il 23 giugno 2023 (venerdì scorso): una qualcosa che palesemente infittisce il mistero in quanto la documentazione fotografica della visita in questione sarebbe stata diffusa dal ministero della Difesa russo. In secondo luogo, la dichiarazione datata 27 giugno del
Presidente Putin, che nel corso di un breve discorso ha fatto i suoi primi commenti pubblici dopo la revoca della rivolta paramilitare di sabato, affermando che la rivolta guidata da Yevgeny V. Prigozhin (che non ha tuttavia citato per nome), è fallita perché “l’intera società russa si è unita e ha radunato tutti”, aggiungendo
che i rivoltosi “volevano che i russi si combattessero tra loro” fregandosi “le mani, sognando di vendicarsi dei loro fallimenti al fronte e durante la cosiddetta controffensiva. Ma hanno sbagliato i calcoli” per la semplice ragione che il primo punto da risolvere per Putin è ora palesemente, come detto, quello di ripristinare la propria immagine e la propria credibilità tanto in Patria quanto, soprattutto, all’estero.
Dello stesso avviso parrebbero essere gli Stati Uniti e lo stesso Cremlino: una subitanea rimozione dal proprio incarico di Shoigu e la sua sostituzione con il Governatore della regione di Tula, Alexei Dyumin, che a quanto si sa farebbe parte proprio dell’accordo, raggiunto sotto l’egida della presidenza bielorussa, tra Mosca e Prigozhin per porre fine alla ribellione, arrecherebbe un danno di immagine di non poco conto tanto a Putin quanto alla Federazione Russa in quanto, il repentino avvicendamento, potrebbe dare credito
all’ipotesi di una capitolazione di Putin. Conforta sicuramente questa lettura il tono del portavoce del
Cremlino, Dmitri Peskov, che ha sì smentito tale avvicendamento, ma con parole alquanto sibilline: “Non so nulla di possibili cambiamenti a questo riguardo”. Un tono certamente notato anche dal Segretario di Stato americano, Antony Blinken, che ritengo proprio per questo abbia dichiarato: “Al momento non abbiamo notizia di nessun capo militare cacciato da Putin. Bisognerà aspettare le prossime settimane
per capire gli sviluppi”.
Diversa valutazione quella che possiamo dare del trasferimento di Prigozhin e della Wagner in Bielorussia, in quanto è da tempo che si parla della reale possibilità che Minsk possa entrare in guerra
al fianco della Russia contro l’Ucraina e le potenze occidentali. Se qualche mese fa rasentava lo zero, oggi questa ipotesi non è affatto da escludere, anche perché la temperatura è sempre più calda, a maggior
ragione dopo le ultime dichiarazioni rilasciate da Aleksandr Lukashenko. Il presidente bielorusso ha infatti dichiarato che qualche giorno fa Minsk ha sventato un attacco missilistico ucraino contro le proprie
strutture militari, quantunque lo stesso non abbia fornito prove a sostegno di questa affermazione, limitandosi semplicemente a ribadire che la Bielorussia non vuole la guerra ma che è pronta a combattere
qualora il suo territorio dovesse essere invaso.
A quanto pare, tutti i coinvolti paiono particolarmente intenzionati a far sì che l’avversario compia il fatidico passo falso. Detto per inciso, il prossimo mese dovrebbe aver luogo il preannunciato vertice Nato
in Lituania, quel vertice da cui potrebbero emergere decisioni in merito alle tempistiche previste per l’ingresso dell’Ucraina nell’Alleanza. L’ipotesi ventilata o quanto meno ventilabile di una possibile
apertura di un secondo fronte, dovrebbe far riflettere parecchio sull’opportunità non solo di un accoglimento in tempi brevi di Kiev nell’Alleanza Atlantica, ma pure sulla stipula di accordi bilaterali tra
le singole Cancellerie europee e il Governo Ucraino, in quanto la spada di Damocle dell’apertura di un secondo fronte comporterebbe comunque un accrescimento del rischio di un allargamento del
conflitto quantunque, in primis, ancora di tipo regionale.
E infatti si fa presto a parlare di supporto incondizionato a Kiev per tutto il tempo che occorrerà a Zelensky per conseguire i propri obiettivi, fintanto che al fronte vanno gli ucraini. Diverso sarebbe per i Governi dei Paesi occidentali, Stati Uniti in testa, pensare di dover giustificare ai propri elettori l’invio al fronte dei propri uomini. Al netto dell’uscita dell’alleato di Vladimir Putin, le autorità di Kiev sono non poco preoccupate per le notizie di una crescente chiamata alle armi di coscritti bielorussi, in una mobilitazione militare non dichiarata che sta facendo temere una possibile entrata in guerra della Bielorussia. Come dichiarato dal ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, “l’ipotesi di un ingresso diretto in guerra
della Bielorussia aumenterà proporzionatamente ai successi russi”.
Come ben si vede, la strategia posta in essere da Mosca sembrerebbe alquanto raffinata puntando a destabilizzare una sempre più traballante coesione interna dei Paesi Nato: una coesione su cui il fattore tempo incide in senso inversamente proporzionale alle esigenze di Kiev, palesemente incapace di poter affrontare le lunghe tempistiche del confronto militare su cui punta Mosca.
Anche in questo caso Mosca sembrerebbe un passo avanti agli Stati Uniti, che invece avrebbe puntato parecchio, ancorché surrettiziamente, sull’apertura di un secondo fronte in Kosovo, quel Kosovo di cui la stampa pare essersi ampiamente dimenticata. Congetture? Forse: nessuno ha la verità in tasca ed io probabilmente meno degli atri. Alla fine, però, le analisi geopolitiche sono come le teorie fisiche che come disse acutamente R. Feynman (Premio Nobel per la Fisica) emergono dal lavoro di coloro che seduti sul margine di una infinita scacchiera cercano di dedurre le regole del complesso gioco dall’osservazione, in ambito locale, del movimento dei pochi pezzi osservabili veramente. In questo senso mi viene spontaneo chiedermi –e chiedere– in quale altro modo valutare quanto riportato il 27 giugno 2023 da Euronews
in un articolo intitolato “Lukashenko: Prigozhin è in Bielorussia. Putin ammette finanziamento della Wagner” e firmato da Cristiano Tassinari. Nel citato articolo si legge testualmente di come Putin abbia
ringraziato le forze russe per aver fermato la rivolta, ammettendo che il gruppo di mercenari è stato finanziato completamente dal governo, per circa un miliardo di euro. A quanto pare il presidente bielorusso Alexander Lukashenko, per parte sua avrebbe confermato la presenza in Bielorussia di Yevgeny
Prigozhin, unitamente ad 8.000 dei suoi uomini, come del resto previsto dai termini dell’accordo che ufficialmente avrebbe sedato la ‘rivolta’.
A tale proposito, citando diverse agenzie di stampa, apprendiamo che Lukashenko avrebbe divulgato alcuni dettagli del suo coinvolgimento con le seguenti parole: “La cosa più pericolosa non era la situazione in sé, ma come la situazione avrebbe potuto svilupparsi. Mi sono anche reso conto che era stata presa una decisione brutale, c’era un sottinteso nel discorso di Putin. Ho suggerito al presidente russo di prendersi del tempo, di parlare con Prigozhin e i suoi comandanti”.
Decisamente, poi, uno strano odio quello di Putin per Prigozhin la cui società di catering, la Concord, si sarebbe pure assicurata un contratto da oltre 800 mln di euro per la fornitura di servizi di ristorazione
all’esercito russo. Ma la nota più interessante ci giunge dal media russo ‘Verstka’, dal quale apprendiamo che la Wagner in Bielorussia non solo starebbe costruendo un campo per 8.000 uomini a Osipovichi, nella regione di Mogilev, ma che questo dovrebbe essere solo il primo di una serie di analoghi campi.
Domanda: da quando in qua un tentativo di ‘golpe’ si conclude in questo modo?
Non resta che attendere gli eventi.