La guerra dei numeri e dello scontro interno al Pd. Sono i temi che hanno scandito la prima vera settimana di acceso dibattito attorno al referendum costituzionale del 4 dicembre. Secondo la Ragioneria Generale dello Stato (Rgs), documento datato 28 ottobre 2014, i risparmi certi derivanti dalla riforma sarebbero 57,7 milioni l’anno, 40 per effetto della riduzione del numero dei senatori e la contestuale abolizione dell’indennità dei nuovi senatori su base regionali. Solo 8,7 milioni risparmiati grazie all’abolizione del Cnel.
Sulla base di questi dati il M5S ha rilanciato la sua campagna a favore del no al referendum sfidando il premier Renzi proprio sui numeri che girano attorno ai risparmi derivanti dall’abolizione del Senato e dalla modifica della Costituzione. Se ne è parlato all’incontro organizzato dai deputati del M5S lo scorso 6 ottobre presso l’Aula dei gruppi parlamentari a Roma, a cui hanno partecipato anche alcuni esperti in materia come Luciano Barra Caracciolo (presidente VI sezione Consiglio di Stato), Guido Ortona (docente di Politica economica università del Piemonte orientale) e Ines Ciolli (docente di Diritto costituzionale università La Sapienza).
Il focus iniziale è stato rivolto proprio alla girandola di cifre che ha caratterizzato fino ad ora questi ultimi giorni di scontro politico e dibattito elettorale. Il Governo aveva parlato di un risparmio di 500 milioni di euro complessivi grazie al varo della riforma. Dato smentito, secondo il Movimento, dalla stessa conclusione della Ragioneria di Stato a cui si aggiungono le presunte pressioni esercitate da ambienti esterni come alcune agenzie di rating. “É il sintomo della distanza abissale tra chi governa e i cittadini – denuncia Danilo Toninelli del M5S – la riforma non c’entra nulla con la crescita economica del nostro Paese e tutta questa pressione attorno al referendum sta spaventando gli elettori”.
Per Luigi Di Maio si sarebbero potuti tagliare le risorse destinate ai deputati per le indennità (81 milioni) o vitalizi (135), senza uno sforzo parlamentare così ampio ma con una semplice riunione del gruppo di presidenza della Camera. Senza dimenticare i costi per le ore di lavorazione, sottolinea il vicepresidente dell’assemblea di Montecitorio, dal momento che sono necessari 100.000 euro l’ora per far funzionare la Camera. A queste criticità si andrebbero ad aggiungere i costi per i nuovi senatori (consiglieri regionali), che dovranno raggiungere Roma per partecipare ai lavori in aula.
Cifre a parte, la discussione rimane accesa su una riforma costituzionale che andrebbe a modificare 47 articoli della Carta. I cittadini come rilevato da Ofcs Report non sono ancora del tutto al corrente del quesito referendario, che non presenta gli articoli della Costituzione da modificare, e del contenuto stesso della riforma. Secondo Luciano Barra Caracciolo, le leggi approvate prima dell’attuazione del vincolo esterno dettato dalle istituzioni europee erano più chiare di quelle odierne, nate sulla scia delle direttive europee. “Le norme della Costituzione primigenia sono superiori perché nascevano proprio dalla sintesi delle istanze presenti nella Costituente, al contrario quelle relative alla revisione costituzionale sono più deboli perché successive e quindi più permeabili al contesto politico ordinario”, spiega il Presidente della VI sezione del Consiglio di Stato.
All’incontro è stato presentato anche lo studio del professor Guido Ortona per il quale il combinato disposto riforma-legge elettorale non produrrebbe gli effetti desiderati di governabilità. “Con l’Italicum la maggioranza assoluta, da un minimo di 340 seggi a un massimo di 352, potrebbe andare a un partito con il 18% dei consensi”, spiega il docente. Ovvero un governo debole come consenso ma forte nell’esercizio del potere. Nell’ipotesi del professor Ortona con un campione di 50.000.000 di elettori e una partecipazione del 78% degli elettori, ci vorrebbero 15.600.000 voti per raggiungere il 40% e quindi vincere al primo turno. Chi arriva primo toccherebbe quota 14 milioni di preferenze. Al secondo turno se dovesse votare il 60% degli aventi diritto al vincitore ne basterebbero 15.300.000: meno di quelli sufficienti al primo turno ma comunque il 51%. Secondo la proiezione fatta dall’accademico, se avessimo votato con l’Italicum alle ultime elezioni del 2013 il M5S avrebbe ottenuto 164 seggi contro i 160 del Pd e i 136 del Pdl. Uno scacchiere ancor più frammentato che non avrebbe assicurato governabilità programmatica ma un probabile governo di grande coalizione.
A queste considerazioni al tavolo della discussione, che impegnerà sempre di più l’opinione pubblica nazionale nelle settimane a venire, vanno aggiunti gli strappi avvenuti all’interno del Pd. L’ex segretario, Pierluigi Bersani, ha detto di essere orientato verso il no al referendum in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, prima della direzione dem dello scorso 10 ottobre. Secondo Bersani il cosiddetto “combinato disposto” tra legge elettorale e riforma cambierebbe radicalmente la forma di governo, andando verso l’esecutivo di un capo che nomina i suoi parlamentari anche solo con il 25% dei consensi. Il segretario Renzi, dal canto suo, ha attaccato il suo predecessore ricordandogli i 3 voti espressi in aula a favore della riforma. Alla direzione del partito Renzi ha aperto alle richieste di modificare l’Italicum e ha proposto una delegazione formata anche dalla stessa minoranza dem. La risoluzione è stata approvata all’unanimità ma al voto non hanno partecipato i componenti della minoranza.